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28 aprile 2024

VascoPratolini: Le ragazze di San Frediano

Un quartiere popolare, il suo don Giovanni e le ragazze sveglie

Non c'e' dubbio che il personaggio principale di questo lieve e piacevole romanzo di Pratolini é il quartiere stesso, quel San Frediano cui ne il fascismo, né le difficili condizioni del dopoguerra, riescono a togliere quella identità popolare e quel tessuto connettivo che, pur nelle personalità forti che produce, riemergono ancora nelle pagine del grande scrittore fiorentino. 
Del resto, l'antifascismo e la partecipazione alla lotta partigiana rimarranno, anche nella narrazione del romanzo leggero, la cifra su cui si valuta il carisma dei personaggi. 
Valga per tutti quel Gianfranco, giovane capo partigiano, con cui il protagonista principale, Aldo, chiamato Bob per la somiglianza con Robert Taylor, farà una famosa scazzottata e che, per il solo fatto di non averle buscate, acquisirà merito agli occhi della gente del quartiere. 
Ancora una volta a Pratolini preme mostrare il carattere di questa città che trovava, sicuramente per un buon periodo del dopoguerra, nei rioni e nei quartieri la sua vera anima, fatta di contrasti forti e altrettanto forti gesti di solidarietà. 
Ma l'altro protagonista è lui, Aldo, che pure non è un personaggio completamente negativo. Anzi, per i suoi studi, i rapporti con la mamma, la parsimonia nelle spese personali («Questo mese puoi trattenerti un pò di più dallo stipendio» gli dice la mamma con cui ha un buonissimo rapporto), si può dire che sia il classico bravo ragazzo di quartiere. Inoltre "Era stato atleta, e poi ginnasta, e s'era fatto all'ultimo momento partigiano, per questo tanto alloro sulla sua fronte di bel ragazzo. La sua fantasia, come il suo ingegno, era limitata...". La cosa che possedeva davvero era la bellezza, di quelle che faranno impazzire molte delle più belle ragazze del quartiere. E lui di questo si approfitta e si fa vanto, finendo per diventare un "rubacuori di quartiere", come l'appella Pratolini. 
Sarà questa sua "qualità" che finirà per farne una persona superficiale. "Bob, ormai, si riteneva dotato di una immensa riserva di affetto che una sola donna sarebbe stata incapace di accentrare ed esaurire". Ma questa sua illusoria capacità di beffare quante più belle ragazze possibile, fino a tentare di circuire quelle che stavano appena diventando donne, finirà per scontrarsi con l'altro, vero, protagonista del romanza: le ragazze di San Frediano! 
Ma chi sono queste ragazze, cresciute nel periodo maturo del fascismo, poi della guerra mondiale e, infine, della guerra di liberazione e della Resistenza? Intanto non sono più le casalinghe di un tempo. "San Frediano è la piccola repubblica delle lavoranti a domicilio: sono trecciaiole, pantalonaie, stiratrici, impagliatrici... Le ragazze di San Frediano, belle o brutte che siano,.. le riconoscete dalle mani. Sono il loro mistero, il loro orgoglio più segreto e la loro dote; e sono bianche, di latte, con le dita lunghe, affusolate. Quelle mani escono miracolosamente pure dalle insidie dei cento mestieri a cui si applicano". 
Sono queste ragazze cui il nostro damerino, sempre vestito bene, riesce spesso a far perdere la testa finché, come ci ricorda Pratolini..."Erano ancora quelle di una volta, le ragazze di San Frediano". Pratolini non lo dice esplicitamente, ma sembra di ritrovare in queste ragazze che si danno appuntamento a Boboli per organizzare la loro rivincita, le discendenti di quella "Beppa fioraia", che Giuseppe Conti nel suo curioso libro su "Firenze vecchia", ce la ricorda alla metà del secolo precedente quello di cui parla il nostro scrittore, come "la bellissima e famosa Beppa fioraia, che abitava a Monticelli... era la prediletta di tutta l'aristocrazia, ed ebbe sempre l'abilità di non far geloso nessuno". Fatto sta che, quando decidono di ritrovare il loro vero carattere, le ragazze che con tanta apparente facilità Bob conquistava una ad una, finiranno per dare una bella svolta a tutta la faccenda. 
Ma qui è d'obbligo che il nostro lettore scovi da solo l'epilogo di questo bello e divertente libro di Pratolini, certamente meno impegnativo di Metello o dei volumi dello stesso autore di cui avremo modo di parlare. 
Insomma, non sarà un vero e proprio capolavoro della letteratura e non parlerà di una vicenda di grandi personaggi. Tuttavia, come ci ricorda lo scrittore fiorentino, amante della sua città, "Ė un'avventura che merita di essere raccontata". E quindi di leggerla!

Renato Campinoti

15 aprile 2024

Vannino Chiti: Dare un'anima alla sinistra, idee per un cambiamento profondo

"Un nuovo umanesimo": cornice, valori e identità di una sinistra rinnovata.

Si chiude questo ricco e generoso volume di Vannino Chiti e se ne esce, da persone ancora impegnate nel sociale, meno smarriti e delusi di come ci capita di essere dietro alle cronache quotidiane. Al tempo stesso si avverte, tutta intera, la mole di impegni e di novità necessarie che vengono proposte da un personaggio che ha attraversato da protagonista molte stagioni di quella sinistra di cui, in maniera così lucida, ci addita ora i limiti, di analisi e di organizzazione interna, che rischiano, dopo le elezioni politiche del settembre del 2022, di renderla marginale e priva di attrattività. 
Da dove cominciare e, soprattutto, come impostare, una recensione che abbia l'ambizione di essere la più oggettiva possibile, pur scontando una vicinanza, certamente di stima, verso l'autore in questione? Seguendo intanto le impressioni più significative che mi ha lasciato la lettura del testo, comincerei dall'aggettivo Ambizioso. 
Chiarendo subito che interpreto questo aggettivo nel senso più positivo del termine e rinviando il lettore alla parte conclusiva dell'excursus di Chiti. Lì troviamo quello che potremmo chiamare il disvelamento delle ragioni di fondo che muovono l'autore a misurarsi su un tema così impegnativo come quello di rinnovare, alla radice, valori, programmi e, soprattutto, regole e conseguenti comportamenti interni alla sinistra e al partito che, ad oggi, la rappresenta maggiormente. "...la cornice al cui interno, per me, si colloca ogni discorso sulla sinistra... per contribuire a realizzare un mondo migliore. Mi riferisco... a quel nuovo umanesimo frutto anche del rapporto fra laici e cattolici o più correttamente oggi con tutti i credenti progressisti... non è uno slogan". Ci avverte Vannino, "la sinistra non ritroverà se stessa, la sua funzione per l'umanità, la sua anima, se non si darà un tratto di valori e identità comuni, da articolare poi programmaticamente nei continenti in cui opera". 
Faccio notare che, come risulta anche dalla sua analisi sulla situazione internazionale, l'autore guarda a questa possibile rinascita in termini mondiali, come condizione, par di capire, di un rinnovamento coerente anche nei singoli Stati! Ciò detto, per essere ancora più chiaro su questo scenario, l'autore ci ammonisce: "Senza un orizzonte condiviso non è possibile unire le classi lavoratrici, i ceti popolari, le giovani generazioni, i protagonisti della scienza e della cultura, nè si accende quella passione indispensabile per cambiare il mondo". 
Qui emerge un tratto non meno ambizioso dell'analisi di Chiti: "Un tempo quell'orizzonte si chiamava socialismo: oggi il termine è diventato inadeguato e insufficiente a contenere l'insieme di valori, vecchi e nuovi... Certo, il modello economico, la proprietà, gli strumenti per assicurare finalità di bene comune restano fondamentali, ma assumono un rilievo altrettanto irrinunciabile l'ambiente, la concezione della persona,, il valore assoluto della sua dignità, l'uguaglianza di genere, il pluralismo culturale e religioso, l'organizzazione della democrazia... Quando la sinistra avrà ricostruito la sua identità e le sue finalità, allora tornerà a incidere non in questa o quella nazione, ma nella scena del mondo". 
Mostrato, mi pare, a sufficienza il carattere Ambizioso nel senso più alto e positivo del termine, l'altro aggettivo che mi viene in mente è Documentato. Fatta la proposta principale "di una fase costituente vera che il PD dovrebbe promuovere, coinvolgendo ogni forza o associazione di sinistra disponibile, sollecitando nel confronto sui programmi anche i sindacati", Chiti passa alle "sfide da affrontare", partendo dal tema del lavoro. 
Lo fa impegnandosi in una analisi niente affatto scontata. "Il mondo del lavoro è molto complesso: accanto ai lavoratori a tempo indeterminato, ci sono i contratti a termini, i finti lavoratori autonomi come le partite IVA o i prestatori d'opera senza reale forza contrattuale. Poi il cerchio si allarga ai lavoratori precari o al nero...". A supporto di ciò l'autore porta studi recenti di esperti in materia, come porta documenti ineccepibili sulla situazione sociale e sulla crescente dimensione dello stato di povertà nel Paese: "...i salari italiani sono bloccati da anni e il 25% dei lavoratori a tempo indeterminato ha compensi che li collocano al di sotto della soglia di povertà". 
Non meraviglia allora che "Rispetto al 2005 il numero delle famiglie povere assolute è più che raddoppiato e gli individue poveri sono quasi triplicati (5.600.000 , il 9,4 %!)". 
Altrettanto documentata è l'analisi di Chiti relativamente al sistema fiscale, al suo peggioramento, in senso negativo per i redditi più bassi e sull'aggravamento ulteriore che porterebbe una riforma come la flax tax. 
Particolarmente documentata è l'analisi che l'autore, ripresa dai dati OCSE, propone per evidenziare il rapporto tra carichi di lavoro e crescita delle morti sul lavoro: "In Italia più del 60% dei lavoratori è impegnato oltre le 40 ore e nel 2020 il 7,8 % di chi aveva più di 15 anni lavorava 49 ore. Peggio di noi c'è solo Malta con 9,5 e l'Irlanda col 9,3". 
Ancora più accurata l'analisi di Chiti relativamente al progressivo processo di privatizzazione dei più importanti capisaldi dei diritti sociali come l'istruzione e la sanità. Su quest'ultima in particolare l'autore evidenzia, anche qui sulla base di dati OCSE, che l'Italia "ha una spesa sanitaria pro capite di 2.473 euro... nettamente inferiore di Francia e Germania, che registrano rispettivamente 3.644 e 4.504 euro... Resta poi il divario tra la quota del PIL che l'Italia destina alla sanità e quelle di Francia e Germania: noi il 6,4, la Germania l'11,7, la Francia il 9,4.
Andando avanti nella sua analisi dei punti di criticità del nostro Paese, Chiti passa ad affrontare i problemi della democrazia, della necessità, anche qui, insieme di una difesa e di un rinnovamento che non intacchi i capisaldi dettati dalla Costituzione. Particolarmente documentate le analisi relative alle proposte sul presidenzialismo e sulla "autonomia differenziata". 
Chiti dedica quindi una particolare attenzione ai rischi di un uso strumentale e di "controllo sociale" relativamente allo sviluppo dei social e alla raccolta sempre più intensa dei dati personali ai fini commerciali e di profitto. 
Ma ciò che emerge con evidenza, a cominciare da questi capitoli del volume, è il carattere delle proposte che Chiti avanza che, pur in un'ottica di realismo politico, evidenziano una natura Radicale (ecco l'altro aggettivo!) indispensabile per far crescere la credibilità e l'entusiasmo intorno al programma di una sinistra rinnovata. 
Radicale davvero è la proposta che l'autore avanza circa il rinnovamento del PD. Sono tante le innovazioni di cui, secondo Vannino, necessita questo partito: "Occorre rendere il PD una comunità politica tenuta insieme da valori condivisi e da una capacità di includere, di confrontarsi sui progetti, senza paura del dissenso costruttivo: il pluralismo nella sinistra è una ricchezza, guai a demonizzarlo come avviene nei partiti personali." 
Accanto a ciò l'autore torna più volte sulla necessità del rispetto delle regole di vita interna, come pure non si sottrae dalla rimessa in discussione di tabù come quello delle primarie, da modificare per riportarle alla valorizzazione degli iscritti, tutt'al più con "l'albo degli elettori chiuso tre mesi prima del congresso".
Chiti non usa mezzi termini sui difetti attuali, fino a criticare apertamente il "moltiplicarsi di autonome signorie locali, con al seguito strascichi di clientelismo politico". Di qui l'insistenza di "una fase costituente vera che il PD dovrebbe promuovere", come ho già richiamato e le cui caratteriste e proposte, appunto, di rinnovamento radicale lascio alla curiosità del lettore di questo interessante capitolo del libro di Vannino. 
Basti per tutte fare riferimento alla necessità, così poco di moda in certi ambienti, del "ripristino del finanziamento pubblico (dei partiti), con controlli rigorosi e collegato anche al rispetto delle regole di democrazia interna". Naturalmente, questo carattere "radicale" delle proposte che l'autore avanza, a seguito dell'analisi impietosa della realtà odierna che le accompagna, è riscontrabile in molte parti del volume. 
Mi limiterò pertanto solo ad alcune segnalazioni: la necessità di ridare con forza e coerenza attualità all'antifascismo ed essere coerenti e non subalterni sulla necessità di fermare le guerre in atto in Europa col rischio di una deflagrazione mondiale. 
Sul primo tema Vannino non fa sconti a nessuno, né al "l'indifferenza di alcuni prefetti, di settori della magistratura, delle forze dell'ordine e di un'area non trascurabile di cittadini" come pure "all'assenza di formazione civile alla democrazia e un antifascismo praticato, negli ultimi decenni, a fasi alterne anche dalla sinistra". 
Su questa base Vannino si esercita in un excursus sui limiti e i pericoli di una lettura del fascismo espressa anche da alte personalità delle nostre istituzioni, in particolare il Presidente del Senato, ricordando che "L'antifascismo è fondamento della Costituzione, ne rappresenta un valore perenne, inseparabile... Per questo, tanto più in Italia, non è sufficiente dire che non si è fascisti: bisogna essere antifascisti!
Sul tema della guerra, in linea con molte delle posizioni di Papa Francesco, Chiti insiste sul fatto che, dopo un primo invio di armi per la difesa da parte dell'Ucraina, viene in primo piano l'impegno per trovare vie di dialogo per cessare le ostilità e impedire lo sbocco in un conflitto atomico che non gioverebbe a nessuno, tanto meno al popolo ucraino primo destinatario di una tale eventualità. 
Sono, come si vede, posizioni radicali e coraggiose che si evidenziano con altrettanto coraggio su molti altri temi, una parte dei quali ho richiamato e che il lettore potrà da solo valutare con l'utile lettura di questo saggio. 
Per me. infatti, è arrivato il momento di esplicitare l'ultimo aggettivo da evidenziare in questo impegnativo lavoro di Vannino Chiti: Utile. Di questo infatti si tratta, di una lettura utile per i tanti dati, tutti aggiornatissimi, con cui tratta l'analisi del contesto che siamo chiamati a vivere, così come utili sono i suggerimenti rivolti al PD ma a ciascuno che abbia a cuore le sorti di questo Paese e che, come ci stimola l'autore, voglia sentirsi partecipe "del progetto di società da realizzare"

Renato Campinoti

10 aprile 2024

Antonio Manzini: tutti i particolari in cronaca

Se la giustizia è inquinata, che fare?

"Non era un gioco, un passatempo, c'erano di mezzo persone di carne e sangue, persone a cui non era stata data la giusta attenzione, quella che un tribunale penale dovrebbe assicurare. Non era stata data giustizia, Per questo c'era lui." Detta così può sembrare il solito schema del "giustiziere" di fronte ad un torto subito. E dobbiamo dire che c'è, a modo suo, anche questo. Ma c'è molto di più in questo libro di Manzini che esce dagli schemi del seriale con Rocco Schiavone, che, pur apprezzabili, a me vengono a noia dopo un poco quando finiscono per ripetere la stessa logica. 
In questo caso, invece, una trama non troppo complicata e piuttosto lineare, giocata su due registri, dove il racconto del giornalista di cronaca suo malgrado (amava di più lo sport a cui si dedicava prima!), accompagna l'evolversi della vicende dell'uomo impegnato a ricercare i casi di mala giustizia e a comportarsi di conseguenza. 
Qui emerge una non banale peculiarità del personaggio, che finisce a fare l'impiegato dell'archivio del palazzo di giustizia, dove giaccione le pratiche dei casi non risolti, dopo aver cercato di entrare nella giustizia dalla porta principale: voleva diventare un magistrato e non ce l'ha fatta. 
Voleva diventare un magistrato, un Cappai figlio del celebre magistrato Cappai che, legato ai poteri forti compresa la massoneria, ha passato la vita a difendere soprattutto i personaggi potenti. 
Qui sorge la domanda: diventa quello che diventa per assolvere alla vendetta che mediterà per tantissimi anni, o prende la strada della vendetta perché non ha saputo prendere quella della giustizia con la g maiuscola? 
C'è una frase che ricorre più volte in questo notevole giallo di Manzini: "si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare" che ci avvicina al motivo di fondo che ha scatenato le azioni del Cappai. 
Il lettore sarà messo al corrente delle vicende legate ai rapporti di Cappai con l'unica donna della sua vita quando sarà già un pezzo avanti con il libro di Manzini, perciò gli lascio volentieri il piacere della scoperta. Il che non mi impedisce di avvertirlo di riflettere con attenzione sull'importanza delle cose che ci accadono in una fase della vita, l'adolescenza, quando gli avvenimenti ci rimangono addosso per un bel pezzo nel corso dell'esistenza. 
Detto questo, va da sé che Manzini, da scrittore di spessore, di gialli in particolare, sa distribuire con grande maestria i cosiddetti colpi di scena, come sa creare la necessaria suspence alla fine di molti capitoli che ci costringe a riprendere più rapidamente possibile la lettura. 
Così come, è tempo di farlo, non è meno avvincente la parte che riguarda quella specie di detective suo malgrado rappresentata dal giornalista sull'orlo della perdita del lavoro. Anche da questo punto di vista Manzina traccia da par suo il profilo di oggi dei giornali e dei giornalisti che, con la fortissima perdita di lettori a scapito dei social e degli altri strumenti di informazione (ormai ogni testata televisiva o radiofonica trasmette notiziari in continuazione e dunque in tempo reale!) sono costretti a viaggiare più veloce della luce sui casi di cui si occupano, finendo per diventare, anche loro malgrado, dei veri e propri concorrenti delle forze preposte alle indagini.
È questo il caso di Walter Andretti e della sua scarsa consuetudine con i casi di cronaca nera, che dovrà tuttavia adattarsi alle ferree regole che richiamavo. Ci sarebbe da dire delle sue difficili relazioni femminili quant'altro, ma, parafrasando il titolo del lavoro davvero interessante e ben fatto di Manzini "tutti i particolari nel libro".

Renato Campinoti

05 aprile 2024

Vasco Pratolini: Metello

Il muratore Metello (e la moglie Ersilia): nasce, non senza difetti, una nuova figura di lavoratore e di popolo.

"Era a se medesimo che si rivolgeva, parlando a Ersilia....«Davvero, come tutto ci deve venire a costar caro. Ho trent'anni e ne ho passate! eppure, ci credi? mi sembra di essere entrato soltanto ora nell'età della ragione». «Meno male» ella disse". Mi pare si possa rintracciare in questa riflessione di Metello (e nella risposta ironica di Ersilia) il senso più pregnante delle vicende che Pratolini ci racconta della Firenze di inizio secolo e del primo, grande conflitto sociale che vide protagonisti i muratori e i loro datori di lavoro. Ma si sbaglierebbe se si pensasse che l'interesse del grande narratore fiorentino sia quello dello sciopero duro e dei suoi complicati esiti. 
È ovvio che questa vicenda non può non occupare uno spazio adeguato, per molti versi centrale, nel pur voluminoso libro dello scrittore. Basta pensare alla durata di quasi un mese e mezzo, alle difficili condizioni materiali in cui vennero a trovarsi le famiglie di lavoratori che già a malapena riuscivano ad arrivare a sfamarsi con i magri compensi mensili, per rendersi conto dell'importanza di una vicenda come questa. Del resto questi avvenimenti e la determinazione e la sostanziale unità dei muratori, avvenivano dopo che ancora alla fine del secolo precedente, le dimostrazioni e le lotte degli operai in molte città del nord, a cominciare da Torino, erano state represse con i fucili e i morti da parte dei miopi governi della Destra storica. 
Ancora a Firenze, soltanto l'anno prima (siamo nel 1902) una prima prova di forza proprio tra muratori e loro padroni si era risolta a vantaggio di questi ultimi che erano riusciti a far rientrare al lavoro gli operai senza nessuna concessione salariale. 
Qual'è allora l'aspetto più interessante di questo impegnativo lavoro di Pratolini? Cosa vuole mostrarci il bravissimo autodidatta in quello che considero il capostipide della sua voluminosa narrazione sulla nostra Firenze? 
Se ci pensiamo gli elementi che l'autore ci mette sotto il naso sono molteplici. A cominciare dalla nascita e dalla prima infanzia e adolescenza di Metello, che avvengono, dopo il parto della madre in San Niccolò, nella famiglia degli zii in campagna, allevato e cresciuto dai contadini, in una condizione di sostanziale povertà. Qui c'è la prima luce che Pratolini ci accende. O si emigra nelle miniere in Europa, come fanno gli zii, o si prova a cercare fortuna nei nuovi lavori che cominciano a crescere nella città di Firenze. 
Pratolini ci parla dei muratori, ma a fianco di questi ci ricorda che ci sono i lavoratori della grande fonderia del Pignone (ancora presente, appunto, nel quartiere del Pignone), ci sono i dipendenti delle altre fabbriche: dai gasometri sorti vicino alla fonderia per dare illuminazione alla città, alle fabbriche delle candele e delle ossa, anch'esse sorte nell'allora disordinata e putrida zona industriale del quartiere che aveva a lungo ospitato il porto fluviale di Firenze. 
L'altro aspetto che Pratolini ci fa toccare con mano sono le trasformazioni sociali che, con le lotte salariali, con la nascita della Camera del lavoro, con la presenza della figura di Del Buono alla guida della medesima, connotano una nuova fase della composizione e della cultura popolare. Anche sul piano più strettamente politico, si passa dal padre di Metello, barcaionolo anarchico, al figlio, Metello appunto, approdato all'ideologia socialista che si sta affermando tra i lavoratori in città. 
La stessa situazione politica nazionale, con la sconfitta della Destra storica e l'arrivo di Giolitti alla presidenza del Consiglio, influenzerà non poco lo stesso sbocco della lotta salariale dei muratori. Da registrare, infine, le novità culturali e di costume tra gli stessi lavoratori. Qui Pratolini non risparmia, come detto, le contraddizioni presenti nello stesso Metello che, pur innamorato di Ersilia e nel pieno di una difficilissima lotta sindacale che lo vuole protagonista, trova il modo di perdere il suo tempo con la bella e fatua Idina. 
Tuttavia sarebbe superficiale non notare le contraddizioni che si aprono nell'animo dello stesso Metello che sente il bisogno di giustificarsi con se stesso per una vicenda di cui si pente amaramente. Ma anche l'Ersilia che, diversamente da una diffusa cultura femminile subalterna, non accetta il tradimento del marito e che rimane con lui perché lo stima ma con attenzione vigile perchè comunque "essa non aveva impegnato il suo cuore". 
In sostanza quello che Pratolini vuole mostrarci sono le trasformazioni in atto, in quel periodo, nella sua città. Con grandissima fatica, con contraddizioni anche negli uomini e nelle donne che ne sono protagonisti (Il dolore del "parto" nella frase di Metello, "come tutto ci deve venire a costar caro") , ma con la convinzione che una fase è finita e se ne apre un'altra. Da qui, nonostante le critiche di chi avrebbe voluto in Metello un operaio puro e senza macchia, gli altri romanzi "popolari" che seguiranno, perché ora il popolo lavoratore, (gli uomini e le donne!) è il nuovo protagonista della nostra città.

Renato Campinoti

25 marzo 2024

Marco Hagge: Giovanni daVerrazzano, Navigatore e gentiluomo

Bravo navigatore, colto e sfortunato

Si può solo dire un gran bene di questo lavoro di Marco Hagge relativo alla ricostruzione della vita e delle qualità, marittime e non solo, di Giovanni da Verrazzano, in occasione del cinquecentenario dei suoi viaggi, per l'accuratezza e la profondità della ricerca, per quella continua dialettica tra le fonti, le opinioni a suo tempo espresse e i risultati più fecondi della più recente storiografia. 
Se si pensa che ci sono stati interi secoli in cui si era finito per mettere in discussione perfino l'esistenza di un personaggio di tali qualità e di tanta importanza per la scoperta del "nuovo mondo"
Partiamo dal fondo. "Ricapitolando: il navigatore, il giorno ottavo del mese di luglio dell'anno 1524, appena approdato a Dieppe, spedisce al re di Francia, nel nome del quale ha compiuto il viaggio di esplorazione oltreoceano, una relazione nella quale espone i termini e i risultati dell'impresa".Queste le parole che Hagge scrive nell'Epilogo del suo interessante lavoro. 
Qui viene fuori tutta la sfortuna che perseguita sia nell'immediato che per un tratto lungo alcuni secoli, la vita e la memoria di Giovanni da Verrazzano. "Subito dopo", riprende l'autore, "della lettera invia alcune copie ad amici e conoscenti. Di queste lettere, due arrivano certamente ai destinatari: quella inviata a Giovanni Battista Ramusio, e quella inviata a Paolo Giovio. Entrambi intellettuali, entrambi bene introdotti nella società e nella cultura dell'epoca". 
Qui comincia la sfortuna del nostro Giovanni. Il re, cui sicuramente la lettera è stata recapitata, probabilmente non ha né il tempo né la voglia di leggere quella lettera. E comunque anche se la legge non ha certamente modo di interessarsene. Poco dopo, infatti, che il Da Verrazzano arriva alla corte di Francesco per consegnargli la famosa relazione, l'8 di agosto del 1524, il re parte (il 14 agosto) per la guerra contro Carlo V imperatore spagnolo, con tutt'altre preoccupazioni nella testa. 
Tra l'altro, la guerra si rivelerà un disastro per la Francia, che vede il suo re Francesco I sconfitto sonoramente il 24 Febbraio del 1525 nella battaglia di Pavia e lui stesso fatto prigioniero. Sarà in seguito costretto, per essere rilasciato, a lasciare in ostaggio i propri figli per oltre quattro anni, pagando infine una somma enorme di riscatto. 
Si capisce come, in simili frangenti, l'attenzione che viene rivolta alle scoperte delle "Nuove Terre" da parte di Giovanni, passano sicuramente in seconda fila rispetto alla situazione del regno. 
Ma la sfortuna che perseguita Giovanni in vita sta per calargli addosso proprio durante l'attività che l'aveva consacrato come uno dei maggiori navigatori ed esploratori di quei secoli pieni, come sappiamo, di grandi scoperte da parte delle maggiori potenze del periodo, Portagallo e Spagna in primo luogo. 
Dopo la scoperta delle terre che costeggiano la baia della moderna New York, Giovanni compirà altri due viaggi, durante il secondo dei quali, nel 1528, sulla base di un nuovo impegno del re di Francia nel frattempo liberato dalla prigionia, Giovanni non farà ritorno. 
Partito a primavera arriva a giugno nel mar dei Caraibi, forse alla ricerca di quella via verso l'oceano Pacifico da tempo nell'ottica di tutti gli esploratori. Avviene così, come racconterà il fratello cartografo Girolamo che lo aveva accompagnato nell'impresa, una volta sceso in un'isola che ritiene disabitata, incappa in un gruppo di nativi, di indole cannibalesca, che lo uccidono, lo fanno a pezzi, e se ne cibano. Più sfortunato di così! 
Eppure, nonostante il racconto del fratello, sembra che a nessuno sia arrivata quella memoria scritta per il re di Francia dopo il primo, importantissimo viaggio di Giovanni. Tra l'altro, merito non minore di questo corposo e documentato lavoro di Hagge, è proprio quello di analizzare puntualmente il documento (relazione) scritto dal nostro esploratore per mostrare tutta la competenza e raffinatezza letteraria del medesimo, sicuro indizio di studi all'altezza di una famiglia di rango del rinascimento fiorentino. 
Non solo, ma dalle denominazioni attribuite da Giovanni alle varie località o baie che ebbe modo di esplorare durante il viaggio lungo le coste dell'America del Nord, di New York e della Florida in particolare, si possono dedurre le molte conoscenze "politiche" e culturali che traspaiono con evidenza da tale documento. In questo senso il lavoro di Hagge porta giustamente come sottotitolo "Navigatore e gentiluomo" per qualificare Giovanni da Verrazzano non come semplice uomo di mare, come molti ce ne furono in quello stesso periodo, ma anche come raffinato cultore della storia e della politica del suo tempo. 
Non esitò, per esempio, durante la cattività del re francese, a intavolare trattative con lo stesso re del Portogallo per farsi finanziare ulteriori spedizioni, che poi finì per compiere, con la sfortuna richiamata, sempre sotto l'egida del regno transalpino. Ma la sfortuna lo doveva perseguitare anche nel ricordo che i popoli avrebbero dovuto tributare a colui che per primo transitò di fronte a quelle terre che, di lì ad alcuni secoli, vedranno nascere la più forte potenza del mondo. 
Ancora una volta si tratta di seguire l'epilogo del nostro autore. "Ramusio... decide di pubblicare la relazione nella sua monumentale opera 'Delle navigazioni et Viaggi' (Venezia, 1556). Da grande letterato quale è...non resiste alla tentazione di apportare qualche modifica...", contribuendo così ad alimentare gli equivoci e addirittura gli scetticismi sulla figura e l'opera di Giovanni. "Paolo Giovio, invece, la legge e la mette da parte, nella sua leggendaria biblioteca, che per tre secoli si trasmetterà, intatta e integra, agli eredi". 
Ci vorranno così cinque secoli finché Giulio Macchi di Cellere, da persona colta, ne capisce tutta l'importanza e si mette in contatto con un bravo giornalista che, nel pieno delle polemiche su Giovanni da Verrazzano, fa tradurre la lettera da un esperto archivista e la pubblica. Mettendo così fine alle più strane congetture su una delle figure più importanti e più qualificate del periodo delle grandi scoperte marinare e non solo. 
Forse la definizione più completa e arguta della figura di Giovanni da Verrazzano, la pronuncia Luigi Cappellini, presidente della Fondazione Verrazzano e attuale proprietario dell'omonimo Castello. 
Interrogato da Marco Hagge all'interno della stesura del pregevole lavoro, sulle doti di Giovanni da Verrazzano, Cappellini, sicuramente colui che più di tutti possiede libri e materiale d'archivio relativo al personaggio, così risponde: "Giovanni è stato prima di tutto un abile imprenditore... la sua attività 'pratica' non è sospesa nel vuoto: poggia su una base di valori etici e culturali, che sono poi quelli della Firenze umanistica e rinascimentale: l'umiltà e la misura, arricchite da un alto senso della propria dignità". Mi pare che questa frase sia l'epilogo più calzante per una figura di "Navigatore e gentiluomo" che la cultura e la competenza di Marco Hagge hanno giustamente riportato alla nostra attenzione di fiorentini e di persone mosse dalla curiosità.

Renato Campinoti

23 marzo 2024

Hermann Hesse: La cura

Gli alti e bassi della vita: cuore e testa per reagire

Si possono usare più registri per parlare di questo piccolo, ma autentico, capolavoro di Hermann Hess, che fa davvero il paio con "Siddartha". 
Il primo registro che viene in mente è quello dell'autobiografia di un uomo, un intellettuale di spessore, colto in una fase della vita in cui, con l'avanzare dell'età e degli acciacchi (la sciatica in particolare, ma non solo) si vede costretto a fare i conti con una sorta di pit stop, per dirla in gergo sportivo, rimettendo in parte in discussione le certezze, culturali e sociali, conquistate in una fase non breve della propria esistenza.
Emergono così via via squisiti quadretti di riflessione, di nuove esperienze che la vita sedentaria di una sorta di sanatorio, nella famosa località di Baden, lo costringono a prendere in considerazione e ad abbandonarsi ad attività del tutto inusuali con la vita "normale". 
Spassose in questo senso le sensazioni degli incontri con quella specie di arte del cinema, dei mezzi concerti, delle serate passate ad ascoltare racconti in forma di teatro, che finiscono prima per annoiare il raffinato intellettuale, per carpirne poi la tendenziale pigrizia indotta anche dallo stato di semi infermità causata dai malanni del fisico. 
Impagabili le parti del libretto dedicate alla progressiva infatuazione del gioco d'azzardo, tipico vizio dei più grandi scrittori della sua epoca o di poco precedenti. Basti pensare, per non andarci di scartina, a Dostoevskij e Tolstoj. Ed è arguta la riflessione cui l'autore giunge quando cerca di andare a fondo per capire perché la gente attribuisce al gioco "un'inestimabile superiorità rispetto a quegli altri generi di divertimento in cui la gente è così chiassosa, scomposta e trasandata". 
La risposta che Hesse ci fornisce è che "qui non si tratta già di musica, di teatro o altre simili quisquilie, ma della cosa più seria, più amata e più santa che gli uomini conoscano, cioè del denaro... contrariamente a ogni altro svago popolare, in una sala da gioco predomina un'atmosfera non priva di timore reverenziale". 
Naturalmente, per seguire sempre il registro autobiografico, al termine delle due settimane di cura e dopo l'immersione in una vita falsata dal cibo, dalle distrazioni e dal gioco, il grande intellettuale che è in lui, la dote di cui Hesse dispone di ritrovare in se stesso le qualità necessarie per ritrovare il senso vero della vita, quell' "oscillare di continuo tra natura e spirito, tra ordine e rivoluzione, tra cattolicesimo e spirito protestante", che lo porta di lì a poco a esclamare di nuovo "Com'era bello vivere!". 
Naturalmente c'è un secondo registro attraverso il quale si può leggere questo agile ma pregnante libro di Hesse: il registro dell'ironia e della parabola. La capacità, cioè, già dimostrata dall'autore, di trascendere le vicende di cui ci racconta, per elevarle a una forma di similitudine della vita degli uomini, degli intellettuali in particolare. Come si può allora interpretare questo momento di vita particolare di cui l'autore ci parla? Un posto particolare spetta certamente al ciclo della vita, all'avanzare dell'età come rappresentazione di un momento importante della crisi intellettuale posta a confronto con novità che emergono e con la difficoltà di una mente "matura", piena di certezze del passato, di farci i conti. Tipico, in questo senso, è il difficile rapporto dell'autore con l'arte nuova di quel momento, il cinema, appunto, da lui vissuta più come distrazione o momento di "leggerezza" piuttosto che come arte in grado di porlo a confronto con le storie e le vicende degli uomini. 
Altrettanto interessante, in rapporto all'idea di "parabola" di questo raffinato racconto, è la parte finale, dove emergono gli strumenti, culturali e intellettuali, (la capacità di non accontentarsi di una visione "univoca" delle vicende umane) attraverso i quali l'intellettuale che è in lui riesce a vedere con occhio critico il momentaneo periodo di crisi. "L'unità che io venero dietro la molteplicità non è un'unità noiosa, grigia, concettuale, teoretica. É la vita stessa, piena di gioco, di dolore, di risa".

Renato Campinoti

16 marzo 2024

Vincenzo Maria Sacco: La punta dei fanciulli e altri racconti

 Racconti per non dimenticare: storie, musica e tante vite nei nostri libri

Per chi, come il sottoscritto, conosce e stima da molto tempo l'autore, riesce a darsi una più agevole ragione della lettura di questi racconti. Del perché certi avvenimenti, voglio dire, rimangono impressi nella memoria di Vincenzo fino a farne degli autentici pezzi di storia e di letteratura. 
La verità è che l'autore coltiva da sempre alcune grandi passioni. La storia, non quella ufficiale, delle date e dei grandi avvenimenti, che sicuramente Sacco conosce molto bene, ma quella delle persone in carne e ossa ("L'uguaglianza delle ossa" è il primo affascinante romanzo di Vincenzo sulla Napoli del settecento) e delle loro più o meno drammatiche vicende. Nasce così un racconto apparentemente minimale come "La punta dei fanciulli" se non fosse che a un certo punto spunta una storia nella storia, quella dei fanciulli della punta, sulla costa dell'isola di Montecristo, che fa restare a bocca aperta. 
Così come sembra una storiella tra vecchi amici, persisi di vista da fanciulli, che finalmente si ritrovano, se non fosse che in mezzo c'è la storia del muro a Berlino e delle profonde lacerazioni inflitte al corpo vivo delle famiglie e dei rapporti umani. Sembrerebbe, nel caso del racconto, che la caduta del muro finisca per produrre ulteriori lacerazioni, e invece. Anche qui, l'abilità di Vincenzo è proprio quella di non dare niente per scontato quando dalle vicende più o meno grandi della storia ci si cala nelle persone singole, nei loro rapporti e nelle storie che non accadono a tutti ma proprio a loro. 
La stessa sensazione di "Il grande parco", come si chiama questo ultimo racconto, la ritroviamo ne "La cicatrice dei ricordi", che richiama una delle più grandi tragedie ferroviarie della storia italiana, quella di Balvano dove persero la vita 521 persone, attraverso il racconto di un medico che aveva deciso di ritirarsi dal consorzio umano per non riuscire a superare il dolore per quegli avvenimenti. 
Anche qui, come negli altri racconti, Sacco riesce a farci immaginare la grandezza della tragedia e, poi, di accompagnarci per mano verso la vita di un superstite per scrutare gli effetti sull'animo e sulla personalità di un'altra persona in carne e ossa. 
Accanto all'amore per la storia Vincenzo, come è noto, ama tantissimo la musica e ne è anche un apprezzato interprete da più di trenta anni in combutta con altri dilettanti di spessore. Anche da questa passione l'autore sa trarre spunto, non per comporre nuovi pezzi musicali (anche se la cosa, conoscendo lo scrupolo e il senso critico con cui Vincenzo si avvicina a qualunque disciplina, non mi meraviglierebbe affatto!), ma portarci di nuovo a contatto con grandi storie, e per raccontarcele come fossero microvicende che possono accadere a chiunque. 
Meravigliosa, in questo senso, il racconto "La scelta" che ci fa immaginare (forse qualcosa di più vero di quello che si possa pensare!) le vicende infantili di John Lennon e i ricordi che lo portarono, già adulto, a scegliere, appunto, di cominciare a scrivere le sue meravigliose canzoni. 
Anche in questo caso la forza del racconto è tutta nel farci immaginare una situazione che è simile a quella dei tanti bambini che incappano, loro malgrado, in vicende familiari non facili per illuminarci, all'improvviso, con la scoperta che anche così è fatta, talvolta, la vita dei nostri più amati eroi. Della musica in questo caso. 
Per terminare, e per lasciare al lettore la scoperta diretta di tutti gli altri otto racconti, mi limito a richiamarne uno del filone, diciamo così, di fantasy, altro genere molto frequentato e amato da Vincenzo. "L'uomo che sapeva leggere" è certamente un racconto di fantasia, fino a immaginare il protagonista nelle vesti di un vero e proprio moderno Robinson Crosue capitato, dopo il classico naufragio, nell'isola deserta, alle prese con la sopravvivenza. Solo che in questo caso il mito non è quello dell'uomo selvaggio, ma del lettore. 
Si dell'amore della lettura e di quella più classica possibile: sui libri di carta come il vero feticcio di un innamorato della lettura come è Vincenzo e con lui tutti noi, suoi estimatori e, anche noi, amanti del leggere e dello scrivere come la più nobile e affascinante delle attività umane, quella, come ci ricordava il grande, indimenticabile Umberto Eco, che "ci fa vivere cento, mille vite insieme ai libri che riusciamo a leggere".

Renato Campinoti