Pagine

11 novembre 2025

Gianpaolo Simi: Tra lei e me

 


Giampaolo Simi: Tra lei e me (Sellerio)

La cultura patriarcale e violenta, la solitudine e l'amore: un mix perfetto

Quando ti capita un libro, di oltre cinquecento pagine, e ti trovi a leggerlo tutto in pochi giorni, ti vien da chiederti come abbia fatto Simi a pensarlo e a svolgerlo con una bravura che ti impedisce di lasciarlo, salvo le indispenabili soste per gli impegni e il sonno, finchè non l'hai finito. Detto questo, va rilevata la grande attualità dei temi che l'autore mette al centro del romanzo, a cominciare da quello della cultura patriarcale di cui è intrisa così larga parte di uomini anche delle generazioni più giovani. Il romanzo si apre col ritrovamento del corpo di Lorena Danesi, all'interno di un vecchio casolare in via del Frantoio Vecchio, poco distante da Viareggio. "Nessuna pista, una donna solare, strangolata", come recitano i giornali che sta leggendo l'avvocato Pietro Valvassori, un cinquantenne che ha giocato a lungo in gioventù a Rugby, che viaggia con una vecchia bici nera con i freni a bacchetta e con l'orecchino che ha messo al momento dell'abbandono dello sport. Cento chili portati con tanti dolori ereditati dalle tantissime botte, spinte, placcaggi del periodo sportivo. Sarà lui ad assumere la difesa del principale sospettato dell'assassinio della bella e giovane Lorena, (immobiliarista, favorita dai pezzi grossi dell'ambiente affaristico della Versilia e perciò malignamente chiaccherata) il già marito della vittima Leandro Nava, titolare di un originale B&B alle porte della cittadina, già difeso da Valcassori quando, impiegato di banca, subiva le minacce di clienti poco raccomandabili. Si avvia così un lungo colloquio tra l'avvocato e il suo cliente Leandro Nava, che si protrae per un'intera serata e poi per la notte, che occuperà, con brevi intermezzi sugli ultimi giorni di vita della vittima Lorena Danesi, quasi la metà dell'intero romanzo. E' in questa parte che l'autore ci porta a confronto con la tematica della cultura patriarcale e della violenza verso le donne, tema che padroneggia con grande competenza e partecipazione. Nell'altra parte del libro, con l'entrata in campo dell'ispettrice Siracusano, una donna dotata di grande acume investigativo, sembra orientare in altre direzioni la soluzione del mistero dell'assassinio della povera Lorena. Anche la figura di una poliziotta come questa contribuisce a sottolineare il valore aggiunto che le donne esprimono in tutto il voluminoso racconto. "Se anche le donne ammazzassero uno zero virgola dei partner che le tradiscono, ogni giorno sarebbe una carneficina", come ci fa constatare la bravissima ispettrice. Senza svelare niente di un lungo finale del romanzo, che di per sè, per il ritmo che l'autore imprime alla lettura, merita un grande encomio, va tuttavia sottolineato come proprio in questa parte emergono altri valori che Simi ci consegna con questa sua fatica.  "La solitudine non esiste finchè non perdi la testa per qualcuno, avvocato". come fa notare, ancora una donna, la collaboratrice di Valvassori. Che più avanti aggiunge "ascoltare insieme la radio, magari di notte...o berci una birra dove suonano ancora dal vivo, inventarci una cena con gli avanzi del frigo perchè fuori è freddo e piove. Quelle piccole cose stupide, ha presente? Cose normali. Ma alla fine sono quelle che giorno dopo giorno non ti fanno morire di tristezza".  Ecco introdotto in maniera netta e dolorosa il tema centrale di tante vite della società di oggi. Qel doloro per il quale "L'avvocato si ammorbidisce controvglia in una smorfia di compassione. Chissà se per la donna che ha davanti, o per se stesso".  Resterebbero altre cose di cui ci parla Simi con questo suo appassionato e bellissimo romanzo. Primo fra tutti il tema dell'innamoramento delle persone in età matura. Ma per non rischiare di spoilare conviene fermarci qui. Anche perchè ce ne è abbastantamza per stimolare tutti a dare avvio alla lettura di un libro, ripeto, quanto mai attuale sui temi che solleva, scritto magistralmente da uno dei migliori dei nostri scrittori.

Renato Campinoti                                                             


06 novembre 2025

Gerges Simenon: L'uomo che guardava passare i treni

Georges Simenon: L'uomo che guardava passare i treni
Quando la mediocrità si trasforma in follia

Non c'è dubbio che questo libro di Simenon va oltre le tematiche sociali e la descrizione dei vizi della piccola borghesia francese su cui il grande scrittore si è esercitato in molti dei numerosi testi che ci ha lasciato. In quelli nei quali Simenon lascia da parte l'spettore Maigret che gli ha data la fama e le risorse economiche e si esercita, appunto, nell'indagine sociale e letteraria di cui è maestro. E' nota ai più la storia di Keep Popinga, "primo impiegato e procuratore" di una ditta di forniture navali situata a Groninga dove l'uomo vive e dove anno dopo anno, il matrimonio finisce per procurargli solo noia, così come le figlie di cui non pare nemmeno interessarsi più di tanto. La molla del romanzo scatta quando il proprietario della ditta, da lui ritenuto uomo rigoroso e tutto d'un pezzo, gli confessa che la ditta è in bancarotta e che lui sta organizzando la sua fuga, fingendo di essere annegato. Da qui prende avvio la fuga di Popinga dalla famiglia, dalla noia del circolo locale degli scacchi e dalla competizione con gli altri impiegati. Andrà ad Amsterdam a trovare Paméla, la maitresse matenuta da de Coster, il proprietario della ditta ora in fuga. Quando la donna scoppierà a ridere alla sua offerta di sostituire il vecchio amante, a Keep non rimane altro che colpirla a morte. Da qui in poi comincia il girovagare dell'uomo in ambienti fatti di prostitute e piccoli delinquenti, ben lontani dal melieu piccolo borghese della vita fino ad allora vissuta. Un ulteriore salto nella descrizione dell'inadeguatezza dell'uomo di fronte agli avvenimenti cui va incontro, emerge quando, leggendo il suo nome sui giornali in qualità di assassino, si monta la testa per questo suo trovarsi alla ribalta e, addirittura, sente il bisogno di chiarire con la stampa le sue "reali" motivazioni. Altrettanto farà, quando si rifugia a Parigi lasciando i Paesi Bassi, con l'ispettore Lucas, illudendosi di sfuggire alla giustizia e sentendosi sempre più invincibile, come la vita fosse una partita a scacchi, di cui è un discreto giocatore. La fine sarà inesorabile e il libro lascerà una non banale riflessione a chi, abituato ad una visione più "indulgente" di Simenon verso i difetti della piccola borghesia, questa volta pare andarci più duro. Come ad ammonire i lettori circa la possibilità dei piccoli "provinciali", che sono poi la maggioranza dell'umanità, di poter rompere gli schemi se privi di una adeguata conoscenza(o capacità di interpretazione) degli ambienti più ampi, più nuovi, più pericolosi, in cui si troveranno a vivere. Che sono poi una parte delle situazioni in cui incappa il suo Maigret nel corso delle sue indagini.

Renato Campinoti

02 novembre 2025

John Fante: Chiedi alla polvere

"un romanzo bizzarro su un uomo e sulla sua compassione per il genere umano"

Ho scoperto John Fante molto tempo fa quando, innamorato dello stile e del rapporto diretto col mondo di Charles Bukowski, scoprii che doveva molto di tutto ciò proprio a lui, a John Fante di "Chiedi alla polvere". 
Rileggendolo, insieme agli amici del Gruppo Scrittori Firenze, mi sorprendo a scoprire, oggi, una parte delle cose che mi avevano impressionato ma che, col tempo, si erano appannate. 
A cominciare da quel suo stile in prima persona (non sempre!) che ne fa da subito un racconto semi-autobiografico e dunque più forte nella descrizione dei luoghi, delle persone, insomma dell'America degli anni trenta/quaranta. C'è anche qui, come ne "La commedia umana" di Saroyan, una visione che potremmo definire drammatica ma orgogliosa di un'America che sta crescendo con il mescolarsi di tante immigrazioni, sia dall'esterno che dall'interno. 
Bellissima la visione di Los Angeles come non luogo, nato e sviluppato da quegli americani "nel cui sangue c'è la polvere dell'Indiana e del'Hhio e dell'Illinois e dell'Iowa, che saranno polvere e moriranno in una polverosa terra senza radici". Per questa visione, nell'impatto dell'alter ego di Fante, Arturo Bandini con la bellissima cameriera messicana, Camilla Lopez, non emerge mai un atteggiamento "razzista" o comunque di inferiorità per quella sua provenienza e che, al contrario, sarà proprio Bandini ad invitarla a non fare delle sue origini una specie di handicap per i fallimenti cui andrà incontro. 
Fallimenti che, semmai, sono simili a tanti altri che finiranno di far parte di un "popolo senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere". Pur essendo questo il periodo in cui una parte dell'America (e Los Angeles con essa) sta crescendo sul piano economico verso il raggiungimento di più grande potenza mondiale, a Fante interessa la sorte degli altri, di quelli che invece, per quanto si affannavano, rimanevano ai margini, quelli che, come recitava Furore il capolavoro di Steinbeck, pubblicato nello stesso anno di Chiedi alla polvere, "E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore". 
Ed è questa America doppia, tra ricchezza e povertà, tra sviluppo e crescente disagio, che interessa a questa generazione di scrittori, a Fante in questo caso. Non a caso il suo capolavoro si svolge tutto, salvo qualche rapido bagliore, sulla Main Street e Spring Street, Bunker Hill, nella parte di città il cui limite occidentale è a Figueroa, e non c'è niente di conosciuto o di famoso. 
Se c'è una cosa che unisce tutta la mentalità americana, dai più alti piani dell'economia alle aspirazioni dei più poveri, è quella di vedere in ogni attività che sviluppano la possibilità di fare soldi, di diventare ricco, come sogna ad occhi aperti Bandini sia nella cattiva sorte (quando non ha neppure i soldi per l'affitto), che quando arrivano le prime centinaia di dollari dal suo editore. 
Non c'è, in Bandini, l'afflato poetico di un Dostoevskij, che pure aspettava i soldi capitolo per capitolo del romanzo L'idiota, con cui campava a malapena la famigliola. Nè tantomeno di un Tolstoj che di anticipi non aveva bisogno. 
Quello che conta, e a cui si aspira anche nell'ambiente letterario, è il successo che porta con sé benessere e il diritto di fare il salto di classe. 
Come ricorda Baricco nella presentazione, i registri su cui si sviluppa il romanzo sono tre: quello dell'aspirazione alla pubblicazione e al successo di cui abbiamo appena parlato, quello religioso, quello del grande amore non ricambiato. Se il successo, come noto, il suo alter ego Bandini riesce ad ottenerlo con fatica, la religione, vissuta con grandi contraddizioni ("Dio onnipotente, mi dispiace di essere diventato ateo") viene in realtà sentita come unica speranza cui aggrapparsi ("Fai di me un grande scrittore e io tornerò alla Chiesa"). In un certo senso prende il posto, nelle aspettative di Fante, che le scommesse alle corse di cavalli hanno per il Chinaski di Bukowski quando quest'ultimo, sperperate le poche risorse di cui dispone, non trova altra speranza che scommettere sul più brocco dei cavalli. 
Il grande amore serve anche a esplorare la caduta e la distruzione di quella parte più sfigata degli immigrati che, appunto, per quanto si diano da fare, non ce la fanno e si rifugiano nella droga e nell'alcol come male perenne dell'America, ancora oggi. 
Significativa in questo senso, la visita alla parte più povera in assoluto della città dove, a gruppi interi per ogni stanza, vivono i negri, quelli che sono ancora, nonostante la guerra di secessione, i paria della società americana. Da menzionare, infine, la cruda e drammatica descrizione di uno dei purtroppo frequenti terremoti lungo la faglia di Sant'Andrea, dove è cresciuta Los Angeles. "Il mondo era polvere e sarebbe tornato polvere", ci ricorda infine John Fante, mentre ci racconta di Bandini, "della sua compassione per l'assurda città intorno a me, che ha allevato il mio genio".

Renato Campinoti




22 ottobre 2025

Leonardo Gori: Il vento di giugno (TEA)

 


Leonardo Gori: Il vento di giugno

All'origine dei servizi segreti deviati nell' Italia del dopoguerra

Da appassionato lettore dei romanzi di Leonardo Gori, credo di poter dire con convinzione che questo "vento di giugno" è sicuramente uno dei migliori, se non il migliore in assoluto, di quelli offertici dal bravo scrittore fiorentino. E lo è, a mio giudizio, per più ragioni. Anzitutto per la capacità di restituire al lettore il clima e la reale condizione di quella fase dell'Italia, di Roma in particolare, in bilico tra le rovine, non solo materiali, di una nazione sconfitta dalla guerra, riscattata dalla Resistenza, tuttora incerta sul suo futuro, perfino sul regime che l'aspetta tra monarchia o repubblica. Crudo e impietoso il quadro di Roma che appare al suo Maggiore Arcieri quando, dovendo recarsi a piedi, per più di un'ora, alla su nuova abitazione "gli sembrava di vedere, nei volti smagriti dei pochi che incontrava alla luce incerta dei lampioni, nelle loro occhiaie profonde, le stimmate di una miseria laida e disperata, che non aveva più nulla a che fare con la povertà innocente dei suoi anni giovanili". Accostiamo questa descrizione dei nuovi poveri tra il popolo di Roma a ciò che che gli appare quando incontra la famiglia di nobili decaduti che lo accoglie come ospite pagante (e perciò prezioso) nella loro decadente dimora, quando, come racconta il vecchio colonello di Arcieri, "nemmeno l'amministratore personale del marchese ha saputo impedire il tracollo finale. Il marchese non può lavorare, è ovvio; il figlio non vorrebbe nemmeno. È il destino di quel pezzo d'Italia. Il vecchio mondo è morto." Quello che emerge da questo accostamento è ciò che, a me pare, lo scrittore vuol farci capire: siamo in una fase in cui l'Italia deve ancora ripartire e lo farà, per la sciagurata politica e la guerra in cui il fascismo l'ha cacciata, da una condizione peggiore di prima del regime. Sia come popolo che come classi noboli che non hanno saputo approfittare, come ha fatto una ristretta minoranza, del mercato nero e delle nuove opportunità. Ma insieme a questo clima che Gori ricostruisce magistralmente, c'è la trama, che vorrei dire principale, di questo impegnativo (anche per chi l'ha scritto, credo) romanzo, il quale, senza disdegnare la fiction necessaria al racconto, ambisce anche, a mio giudizio, a romanzo storico. E non devono essere state di poco conto le ricerche cui Gori si è dovuto sottoporre per centrare, con la precisione che dimostra, lo sviluppo delle vicende storiche che accompagnano lo svolgimento della trama. La quale, per dirla in bereve, vede Arceri richiesto dal suo vecchio comandante, di svolgere una impegnativa analisi delle vicende che si dipanano intorno all'Ufficio I,  che ha sostituito il vecchio SIM, il servizio segreto per il quale lavorava fino alla caduta del regime fascista. E sarà la ricerca che Arceri mette in campo, avvalendosi di soggetti anch'essi, come si sente lui stesso, emarginati dal nuovo Servizio, che farà emergere il lavoro sotterraneo (ma non troppo) per far nascere quei Servizi, che si meriteranno in seguito l'appellativo di "deviati", ancora di fatto al servizio della mentalità reazionaria e fascista, sconfitta sul campo ma non nei gangli dello Stato. Gori data questo lavoro sotterraneo  proprio in questa fase dell'Italia, i giorni immediatamente precedenti il Refrendum che vedrà prevalere la Repubblica, ma che si porterà dietro un ben pesante fardello che darà, in seguito, i suoi frutti amari con la cosiddetta "strategia della tensione", con le bombe sui treni e nelle piazze. C'è, in questo lavoro di Gori, anche il riflesso di un certo pessimismo sulla permanenza di una certa presenza culturale in settori del popolo italiano: "il fascismo era nelle ossa degli italiani, sia prima sia dopo. Un cancro forse incurabile". Non mancano nel romanzo, riferimenti alle vicende sentimentali di Arcieri, così come l'incontro con donne, in particolare Cristina, la bella e impegnativa figlia del marchese, che lasceranno un segno nel virtuoso Maggiore. Arceri centrerà, con la sagacia di cui è capace, anche alcuni risultati positivi, in particolare a favore della famiglia del marchese e di sua figlia. Ma alla fine di questa piacevole e eccellente scrittura, quello che rimane davvero è l'impressione di un'indagine, in forma di romanzo, di uno dei periodi più difficili e complessi della storia del nostro paese, quasi con l'avvertimento, da parte dell'eccellente scrittore, a guardarsi intorno ancora oggi per impedire che il cancro diventi davvero incurabile.

Renato Campinoti

04 ottobre 2025

Ilaria Pizzini: Più forte del tempo

Alla scoperta delle proprie radici: nuova forza vitale

La prima cosa che viene da dire di questo romanzo è la qualità della scrittura e la piacevolezza che restituisce al lettore. Si avverte una capacità di raccontare le cose che è, di per sè, un modo di tenerci attaccati alla lettura. Ma, naturalemnte, è altrettanto piacevole e ben strutturato il "percorso" del racconto. 
Fin dall'inizio si avverte che la scrittrice sta parlando di una storia che intreccia vicende personali, luoghi incantati e scoperta della propria identità. Devo dire che, per quello che ho percepito, lo sa fare in maniera che diventa una sorta di ricerca in cui è coinvolto anche il lettore, al netto, naturalmente, delle vicende più strettamente personali della Cate (sta per Caterina, ovviamente). 
Le quali vicende, tuttavia, anche se si svolgono così intrecciate alla matrice fondamentale del racconto, assumono tuttavia la loro autonoma importanza. In buona sostanza tutto gira, per Cate, intorno alla sensazione di trovarsi, quando mette piede nel borgo di Magliano in maremma, in un luogo dell'anima. Di più, nel luogo che la sua anima ha già conosciuto, forse in una vita o in una persona diversa ma della sua famiglia. 
Di qui la decisione repentina di comprare l'appartamento dentro le mura e la scelta definitiva di cambiare vita, anche sentimentale. Ma qui si tratta di un racconto del quale non si può dire molto pena il cadere in uno spoiler inaccettabile alla scrittrice e, soprattutto, al lettore. 
Allora vale la pena dire che al centro del racconto ci sono le donne, la gran parte fornite di un robusto carattere, che sanno scegliere i loro uomini (quasi sempre) e che sono loro a rappresentare la continuità delle generazioni e della famiglia. 
Anche il nome, Caterina, che ricorre di generazione in generazione, talvolta camuffato in Catherine, talaltra in Maria Caterina, sempre tuttavia a indicare la continuità di una famiglia e, soprattutto, di un carattere femminile. 
Naturalmente ci sono anche personaggi maschili in questa storia, alcuni di carattere negativo: "Mio padre non era una brava persona, alzava le mani dentro e fuori casa", come racconta Rodolfo, un lontano parente della Cate. Le violenze sulle donne c'erano anche qualche generazione fa! Ma di uomini positivi ce ne sono più d'uno in questo racconto. 
A cominciare da Antonio, il fratello di una certa Maria Caterina, il quale, quando un gruppo di garibaldini passa da Magliano per reclutare soldati per l'impresa dei Mille, alla sorella che gli chiede che intenzioni ha, risponde: "Secondo te? Certo non ho nessuna intenzione di lasciare che gli altri facciano la storia mentre io rimango in questo paese addormentato". 
Lo stesso potrebbe dirsi di quell'Edoardo Berretta, che diverrà grande amico di Antonio e avrà altre parti nello svolgimento del racconto. Ma qui ci fermiamo e lasciamo che sia Cate a fare incontrare al lettore altri uomini in gamba, come pure figure femminili che sapranno esprimere sentimenti e atti di vera amicizia verso la protagonista, aiutandola a superare il momento di crisi con un uomo (eccone un altro negativo) che dimostra tutta la sua superficialità in materia di rapporti interpersonali. 
Non poteva mancare, infine, un altro protagonista: i libri. Sono loro infatti che fanno crescere l'amicizia di Cate con Lella, la bibliotecarie di Magliano, così come sono i libri il rifugio dei momenti di sconforto o di noia che aiutano la nostra protagonista a mantenersi in forma per andare alla scoperta delle proprie radici. 
Prima di abbandonare questo interessante e piacevole libro, torno all'inizio, alla dedica che Ilaria fa "Alle donne della mia famiglia del passato, del presente e del futuro". Mentre vado a riporre il libro sullo scaffale di quelli già recensiti, una domanda continua a frullarmi nella testa: "Quanto c'è di fantastico e quanto di autobiografico in questo libro?" 
Mentre metto a riposo il computer mi dico che qualunque sia la risposta mi sono divertito e mi è piaciuto davvero questo racconto.

Renato Campinoti

23 settembre 2025

Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope (Mondadori)

Gianrico Carofiglio: La disciplina di Penelope

Una figura di donna forte che sa indicarci la strada per superare i momenti difficili


Dei molti, buoni libri cui ci ha abituato Carofiglio, con la consueta competenza e professionalità, questo ha rappresentato per me una piacevole sorpresa. Dietro una apparente, semplice storia, emerge una figura di donna davvero fuori dal comune. 
Caduta in disgrazia dal ruolo che si intuisce importante nella polizia investigativa a causa di eccessi caratteriali solo immaginabili, Penelope sembra essersi inflitta una sorta di autopunizione isolandosi dal mondo e usando le persone (e gli uomini) solo in forma strumentale e casuale. Beve e fuma in quantità non eccessive ma dannose e fa uso di psicofarmaci. 
Rimane tuttavia aggrappata alla vita imponendosi un minimo di "disciplina" dando continuità ad un pò di allenamento fisico e di alimentazione decente. Dura con gli altri, fragile dentro. 
Poi avviene una novità. Il marito di una donna brutalmente uccisa, assolto per insufficienza di prove dal sospetto di essere l'assassino, chiede a lei, su suggerimento di un ex collega che ne conosce le doti, di aiutarlo a trovare il vero assassino per togliere quella macchia e i dubbi possibili. Soprattutto per la figlia, oggi piccola ma che domani, da grande, potrebbe porsi domande imbarazzanti. 
Qui, con tutte le incertezze, inizia una fase nuova della vita che Penelope si era imposta. Il libro, sta qui secondo me la sua vera efficacia, si muove d'ora in poi su due binari che finiscono per intrecciarsi. 
C'è, ovviamente, il lento ma continuo sviluppo dell'attività investigativa che Penelope percorre, non disdegnando di chiamare in causa i rapporti personali con gli ex colleghi che continuano a stimarla e ad aiutarla. Perfino il giornalista della nera che è stato amico molto apprezzato la spinge ad uscire dal suo torpore, come lo chiama: "Tu hai un talento che andrebbe usato, smettendo di pensare a quello che è accaduto". 
Penelope, pur con la consueta durezza di carattere anche con gli amici, inizia a riflettere sulla sua natura e sui suoi reali desideri. Si avvia così, in parallelo all'indagine, l'altra faccia di questo racconto: il lento ma progressivo recupero dell'autostima della donna al centro della narrazione. Molto efficace, quando avvia davvero l'indagine ("Di nuovo in pista, su una vera indagine... mi venne voglia di... cucinare") il ricordo della nonna Penelope: "mi ha insegnato a cucinare, a fare i giochi di prestigio e molte altre cose che ho sperperato... È morta quando avevo sedici anni, ma io ho continuato a parlare con lei per tantissimo tempo." 
Lascio al lettore attento gustare questo bellissimo passaggio dove sono molte le suggestioni che aiutano Penelope a ritrovarsi. Per concludersi infine con la riscoperta di un libro con una dedica della nonna che è una bellissima poesia di Anna Achmatova, molto in sintonia col momento di risveglio della nostra ex poliziotta. 
Ed è ancora nell'ambito della ritrovata fiducia in se stessa che l'autore ci fa regalare da Penelope un'altra perla: "In passato mi domandavano quali sono le doti essenziali di un buon investigatore. Rispondevo dicendo cose piuttosto ovvie: spirito di osservazione, capacità di ascoltare... Ma la qualità essenziale... è la consapevolezza del ruolo decisivo del caso, della fortuna... Il buon investigatore è qualcuno che cerca di moltiplicare le possibilità che accada qualcosa di casuale e fortunato". 
Si sente qui la professionalità e la cultura dello scrittore. E saranno proprio queste doti a permettere a Penelope di portare a buon fine la sua indagine semi clandestina. 
Tra l'altro non potrà prendersi nessun merito per il risultato cui conduce quella non semplice indagine. Ma non importa. Mentre è presa dai soliti esercizi fisici all'aria aperta ha un pensiero "Disciplina senza sottomissione: mi piacque molto, mi parve un'intuizione e, forse, un insegnamento. Un modo di essere al mondo... una possibile soluzione. Una scelta". 
Ancora una volta si chiude un libro di Carofiglio e non si vede l'ora che ne arrivi un altro.

Renato Campinoti


17 settembre 2025

William Saroyan: La commedia umana

William Saroyan: La commedia umana
 
Quando l'America era di tutti i popoli che l'abitavano

Mi è piaciuto molto questo piccolo, grande capolavoro di uno scrittore armeno, vissuto in America quando gli USA erano la patria di tutti quelli che l'abitavano. 
Come romanzo di formazione non ha niente da invidiare ai capolavori del genere, come Siddharta di Herman Hesse o Il Giovane Holden di Salinger. Qui la presa d'atto della realtà da parte del giovane Homer è più impegnativa degli altri giovani, meno fantastica e più legata ai bisogni materiali della famiglia, con la perdita del padre e l'invio al fronte del fratello maggiore Marcus. 
Inoltre i personaggi che ruotano intorno al giovane postino-telegrafista, sia il fratellino più piccolo Ulysses che la più grande, la sorella Bess, fanno parte integrante della crescita di Homer che di giorno frequenta il liceo e di sera, impiegato alla sede locale delle poste (la cittadina è Ithaca, nome quasi evocativo!), fila veloce a consegnare telegrammi e, correndo in bicicletta, si avvia a diventare adulto. 
Ma le analogie con altri testi finiscono qui. L'America e il racconto che ce ne fa questo scrittore di origini armene è al tempo stesso più amara e più dolce di quella degli scrittori che ho richiamato. È più amara perché il racconto si svolge in uno dei periodo più difficili per i giovani americani, quello dell'entrata in guerra, dopo Pearl Harbor, da parte degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. 
Le vicende si svolgono tra il 1943 e il 1944, gli anni più sanguinosi del conflitto. Nella apparente pacifica cittadina dove vivono Homer e la sua famiglia, si fa sempre più amaro l'eco delle giovani vittime al fronte. E toccherà proprio al giovane portalettere recapitare alle famiglie la triste notizia attraverso un burocratico telegramma dell'Amministrazione americana. 
È di una notevole efficacia la pagina che descrive la prima, bruttissima esperienza di Homer quando è costretto a consegnare uno di questi telegrammi alla mamma, che intanto sta festeggiando con figlia e amici il suo compleanno. "La madre venne alla porta: "È di Alan, ne sono certa"..."È il mio compleanno", disse. "Mio dio, sono vecchia. Devi augurarmi ogni bene, figliolo". Allungò a Homer un bicchiere di punch. "Le auguro..." cominciò Homer, ma non riuscì a proseguire. Appoggiò il bicchiere sul tavolo e se la diede a gambe...La madre aprì il telegramma e lo lesse...la figlia fissò sua madre, ancora sulla porta. Come impazzita, si precipitò a spegnere il giradischi. "Mamma" le urlò, e le corse incontro". 
Pur mantenendo sullo sfondo questa amarezza (che si ripresenterà più volte!), tuttavia il quadro che lo scrittore descrive dell'America, attraverso questa cittadina in quel periodo, è quello di una realtà orgogliosa di se stessa ("grazie ragazze americane", diranno i tre giovani soldati che si fanno semplicemente accompagnare al cinema da altrettante giovani ragazze del luogo) E il riferimento all'America e all'essere americani risuonerà più volte nel racconto. 
Molto netta l'affermazione di Marcus rivolto al suo amico soldato, orfano dalla nascita e che si preoccupa di questo. "Ho l'impressione di non avere gli stessi diritti che hanno gli altri- capisci un ragazzo battezzato all'orfanotrofio, non da sua madre e suo padre... che non sa qual è la sua patria d'origine. Alcuni dicono che sono mezzo spagnolo e mezzo francese, altri italiano e greco...". Marcus lo interrompe. "Tu sei americano...Non c'è da discutere. È chiaro per tutti". 
Già questa è una bella lezione per quelli, sempre più numerosi, che al giorno d'oggi, anche da quelle parti, tendono a dividersi su tali concetti. Ma ancora più forte è l'orgoglio che trapela dalle parole del giovane e intelligente capufficio di Homer quando, girando in auto con la fidanzata nei dintorni di Ithaca, dove molte famiglie fanno pic nic. "La musica era a tutto volume, le danze erano sfrenate. 'Americani, greci, serbi, polacchi, russi, messicani, armeni, tedeschi, neri, spagnoli, baschi, portoghesi, italiani, ebrei, francesi, inglesi, scozzesi, irlandesi: quante razze diverse. Incredibile!". 
E si capisce che per lui (come per molti americani in quel periodo) questa era la forza del nuovo mondo! Cosa che oggi, purtroppo, sembra essere diventata appannaggio di una minoranza! 
E l'America di questo bellissimo racconto è quella che ripone nella saldezza della famiglia e dei suoi affetti un altro punto di forza della Nazione destinata a diventare, proprio in quegli anni, la maggiore potenza mondiale. Una Nazione dove la solidarietà e il rispetto tra le generazioni sono all'ordine del giorno. 
Bellissimo da questo punto di vista il rapporto di Homer col vecchio telegrafista, Grogan, che non mancherà di farsi troppi bicchierini al vicino bar, ma che troverà nel ragazzo appena assunto un suo sostegno, come troverà in Spengler , il capufficio, la persona che lo lascerà venire in ufficio anche quando ha superato l'età e potrebbe andare in pensione, pur di fargli evitare la solitudine e il rischio di sentirsi inutile. 
Ci sarebbe da dire di un'altra bellissima figura, quella della signora Hicks, l'insegnante che ha di fatto accompagnato la crescita di molte generazioni della cittadina e che impartisce lezioni di morale a tutti "In uno stato democratico tutti sono uguali, ma è fondamentale che ciascuno si impegni per dare il meglio di sé, non importa come". 
Non mancheranno vicende che riporteranno amarezza nei nostri personaggi. Ma quando si chiude il libro si rimpiange che quel Paese che stava in quel periodo crescendo e che accoglieva nel suo seno i profughi dalla miseria, dalle discriminazioni razziali, e anche coloro che cercavano semplicemente una nuova opportunità, sia oggi tra quelli che pensano possibile ergere muri tra le Nazioni del mondo.

Renato Campinoti