Un "femminicidio di stato" che ci interpella ancora oggi
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Non trovo pace per la rabbia, per l'ingiustizia. Non trovo pace perchè vedo che, dopo quattro secoli, se sono diversi i tempi, ad essere le stesse sono le passioni umane, che non scongiurano ancora fosche vicende come la mia". Nasce sicuramente dalle parole che Nicoletta mette in bocca alla sua Beatrice Cenci, a coronamento del drammatico epilogo della vita della ragazza romana, la possente spinta che la induce a scrivere questo vero e proprio capolavoro per lo stile e le passioni che induce.
La prima scelta che l'autrice compie, di immedesimarsi con il suo personaggio parlando in prima persona, contribuisce molto a dare alla ricostruzione delle vicende di Beatrice Cenci, peraltro ben note e comunque rintracciabili facilmente, un carattere personale e in grado di dialogare in maniera stringente e appassionata con il lettore. Per dirla tutta, Nicoletta riesce a trascinarci dentro la mente, i pensieri, le passioni della protagonista in maniera tale che, se non sei di ghiaccio, finisci per emozionarti come se le cose stessero accadendo mentre le stai leggendo.
Dote rara questa, che va davvero a merito di uno stile apparentemente sobrio, in realtà quanto di più coinvolgente che si possa incontrare.
La prima parte del libro è tutto concentrato sul progressivo sviluppo della paura della violenza e della violenza vera e propria che Beatrice sarà costretta a subire dal padre violento e alcolizzato che si ritrova. "Quando nei suoi confronti fu emessa la condanna più infamante, per sodomia, mio padre non riuscì più a scampare al carcere". Sarà paradossalmente solo in questi momenti di tregua, con l'assenza del padre dalla casa di famiglia (una famiglia molto ricca!) che Beatrice riesce a immaginare una sua vita normale, con il personaggio dell'abate Guerra che le dichiara il suo amore, peraltro ricambiato, che non riuscirà mai a mantenere la promessa per il senso di possesso e di morbosa attrazione che il padre proverà per la figlia, fino alla violenza e lo stupro, come è noto.
Così, quando l'abate si fa avanti per chiedere la mano della figlia. il Conte padre non solo negarà il permesso, ma, per tagliare la testa al toro, arriverà a urlare: "Volete proprio sentirvelo dire? Ѐ la mia amante!".
Iil carattere brutale, al limite del disumano, del Conte non riguardava solo, ovviamente, il rapporto con la figlia. Per darci uno spaccato del personaggio, in poche pagine la scrittrice ci racconta come due dei figli maschi, cresciuti alla "scuola" della violenza e della prepotenza di famiglia, finiranno per essere uccisi in occasione di risse notturne in compagnie che si possono immaginare. Ciò che colpisce è la reazione del padre che "non versò una lacrima. Non pagò un baiocco per il funerale... Entrambe le volte, davanti ai corpo dei propri figli, sibilò, senza timore di essere sentito: 'Questi figli sono stati una maledizione! Non avrò pace finché non li avrò visti morti tutti'".
Molte cose avverranno in quella località, la Rocca di Petrella sul Salto, dove il padre porterà lei e la Lucrezia, la nuova sposa dopo che è rimasto vedovo, anch'essa, come la figlia, vittima di eguali violenze. Sarà in questa località sperduta, vicino a Rieti, nel Regno di Napoli, che si consumerà una parte importante della breve vita di Beatrice, che approfitterà delle frequenti assenze del padre per illudersi di poter afferrare un vita normale.
Addirittura si rivolgerà agli uomini che il padre lascia a custodia dei possedimenti, sperando di essere aiutata a ritrovare un senso alla sua vita. Nasce così, ormai disillusa di un normale rapporto matrimoniale, un rapporto a metà tra il sentimentale e lo strumentale con un uomo di più di quarant'anni (per lei giovanissima da poco ventenne, quasi vecchio!), quell'Olimpio Calvetti, il castellano di quei Colonna, proprietari della tenuta di Petrella, prestata al Conte in quest'occasione.
Saranno lui e l'altro servitore, Marzio Floriani, coloro da cui si farà aiutare per portare a termine il proposito di uscire dal labirinto di violenza e orrore uccidendo il padre. Sarà Marzio che si farà convincere a recapitare le lettere di richiesta di aiuto che Beatrice scrive al fratello Giacomo, all'abate Guerra e a uno zio, alcune delle quali tuttavia il Conte intercetta e saranno l'elemento scatenante della vendetta verso la figlia, che sarà prima frustata e seviziata di nuovo, quindi reclusa e isolata. "Fece serrare le porte, salvo un piccolo sportello per il cibo... Fu allora che lo condannai definitivamente a morte".
Dopo la maldestra congiura portata a termine da Beatrice con la complicità dei servitori e con l'assenso impaurito di Lucrezia e del fratello Giacomo, inizia la seconda parte del romanzo e l'ultimo periodo della vita di questa bella e sfortunata ragazza. Questa è la parte dove più emerge, con l'avvio delle indagini, la carcerazione di Beatrice e degli altri complici, le torture durissime inflitte, tutta la sofferenza inflitta, ancora in vita, a questa giovane donna.
Si passa così dall'iniziale felicità del ritorno a Roma, ("giurai a me stessa che avrei trascorso in città il resto della vita") all'inizio delle indagini della polizia papalina, fino alla prima reclusione in galera sia di lei che della matrigna Lucrezia. Neppure un nuovo incontro con l'abate Guerra e la promessa di questi di trarla fuori dai guai, riusciranno a farla pensare in positivo al futuro prossimo della sua vita: "Ma ciò che una volta mi avrebbe resa felice, non riuscì a scaldarmi il cuore. Capii che anche io ero morta per sempre".
Di qui in avanti le cose cominceranno a precipitare. Le troppe falle nella gestione della congiura contro il padre, i troppi oggetti suoi trovati addosso ai inservienti che l'avevano aiutata, le si ritorceranno contro e aggraveranno via via la sua situazione. Con le confessioni infine estorte a tutti gli altri con la tortura più crudele, compreso quel povero fratello Giacomo ridotto a pelle e ossa, le faranno prendere coscienza che la sua fine è ormai imminente "Ero sola, completamente sola! Avevo perduto tutti, per un verso o per un altro! Chi era morto, chi mi aveva abbandonata, chi mi aveva tradita! Avrei fatto vedere loro come si doveva lottare, si poteva ancora negare. Resistere".
Qui Beatrice commette l'ultimo, fatale errore nella conduzione della sua difesa: quello di negare di avere mai ricevuto violenza e strupo dal genitore, sperando così di allontanare da sè la ragione che l'avrebbe portata a vendicarsi e uccidere il Conte. Non si rendeva conto, la poveretta, che ormai era evidente a tutti la sua, e quella degli altri complici, responsabilità nell'assassinio del genitore. Che l'unica vera attenuante di fronte alla giustizia papalina poteva eventualmente consistere nell'assecondare ciò che pure una parte dei testimoni, a cominciare dalle donne di servizio, andavano dicendo ai giudici: vale a dire proprio le ripetute e brutali sevizie e soprusi patiti da lei e dagli altri da una persona malvagia, viziata e che aveva perso del tutto il diritto di chiamarsi padre.
Siamo ad agosto del 1599, quasi un anno dal quel 10 settembre dell'anno precedente in cui è avvenuto il complotto. Il Papa Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, si decide ad emettere un motu proprio il quale, col titolo beffardo di Quemododum paterna clementia permetteva che si usasse la tortura anche verso una di famiglia nobile quale era Beatrice Cenci.
Di fronte agli aguzzini che le legano le mani dietro la schiena e la issano in aria, Beatrice urla di non infierire e confessa tutto, comprese le terribili violenze subite dal padre. Sperando così di ottenere quella clemenza di cui ha bisogno.
Ma ormai è tardi, gli orientamenti e gli interessi del Papa vanno tutti in una direzione. Sono molti a pensare che pesa tanto, nella decisione papale, la confisca dei notevoli beni dei Cenci e l'accaparramento, all'asta, da parte di un parente del papa medesimo. È sconvolgente leggere la sentenza che Clemente fa scrivere ai suoi relativa soprattutto a lei e a suo fratello Giacomo, con quell'orrenda indicazione di strappare le carni pezzo a pezzo al povero, quasi incolpevole, giovane e fino a lasciare i pezzi appesi alle corde della tortura nella piazza, nella quale piazza viene detto di mozzare la testa di Beatrice e di farla rotolare fuori dai ceppi.
Tutta questa parte, scritta con levità e accoramento da parte di Nicoletta, è accompagnata dalla grandissima partecipazione della folla, divisa tra un profondo senso morboso della vicenda e una grande pena per l'ingiustizia perpetuata verso quei due giovani.
"Ci furono tredici morti quel giorno, schiacciati nella calca o caduti dai parapetti.Il tavolato di una bottega crollò per il peso e in quattro ne morirono, altri annegati nel Tevere, altri ancora per insolazione, e più di seicento rimasero feriti. Qualcuno uscì di senno per aver assistito allo spettacolo".
Era l'11 settembre del 1599, a ridosso del Giubileo del 1600. Di lì a poco, il 17 Febbraio, in Campo dei Fiori si rinnova un'altra, grave ingiustizia papale: Giordano Bruno dato al rogo in pieno Anno Santo. Beatrice fu sepolta, come da suo desiderio, in San Pietro in Montorio, dove tuttavia non troverà pace neppure lì quando, in pieno periodo napoleonico, un manipolo di soldati francesi, alla ricerca del piombo delle sepolture, aprì anche la sua tomba e uno di essi "prese la mia testa... facendola ribalzare da una mano all'altra come una palla".
Nicoletta ci lascia qui, con tanta, rinnovata, rabbia per questi veri e propri assassini di Stato. Con l'angoscia che ci prende ogni giorno di fronte alla barbara cultura dei sempre più frequenti femminicidi.
La lettura di questa bellissima opera, che invito tutti a godersi, ci spinge a fare del dolore di Beatrice Cenci un'arma in più per la instancabile battaglia per migliorare il mondo che frequentiamo.
Renato Campinoti
Un "femminicidio di stato" che ci interpella ancora oggi