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20 giugno 2025

Antonio Scurati:M La fine e il principo (romanzo), Ed. Bompiani

 

Antonio Scurati: M  La fine e il principio (Ed. Bompiani)

Quando la letteratura ti costringe a fare i conti con le "sirene" del fascismo di ieri e di oggi

Per parlare correttamente di questo corposo e interessante libro di Scurati non si può prescindere da due aspetti indispensabili. Il primo è dato dal fatto che si tratta del quinto volune di una vera e propria saga sul fascismo e su Mussolini in particolare, dalla presa del potere alla disfatta e alla caduta. Ci sono i fatti, ovviamente, ma spesso sono solo lo sfondo di molte pagine dedicate all'uomo Mussolini, alla sua gastrite, ai suoi tormenti e indecisioni di fronte alle più imprortanti e spesso gravi e drammatiche scelte che è chiamato a prendere. E qui veniamo al secondo aspetto che caratterizza questo immane lavoro dello scrittore. Non si tratta dell'ennesimo e pur utile libro di storia sul fascismo e sul nazismo di cui non si è mai abbastanza saturi. Questo lavoro è ancora più utile (e tempestivo, come dirò!) proprio perchè si tratta di un romanzo, un romanzo storico ovviamente, ma pur sempre l'esempio di un efficace e corretto uso della letteratura che non intende lasciare il lettore di fronte alla pur tragica sequenza dei fatti e del loro concatenamento. Portare il racconto dentro lo studio milanese di Mussolini, prima, (già allora con la sua "scuderia" di amanti!) o nella grande stanza di Palazzo Venezia, o addirittura nelle sale di Villa Torlonia, a contatto con le sue vicende private e pubbliche, ci costringe a pensare agli sviluppi delle vicende del nostro Paese, in mano a un simile personaggio, con una tensione e attenzione che i pur determinanti fatti storici probabilmente non saprebbero restituirci. Sono molti i passaggi emblematici delle vicende raccontate nei cinque volumi che potrebbero essere portati ad esempio di questo modo di intendere il romanzo storiuco di Scurati. Ne citerò solo due. La vicenda dell'assassinio di Matteotti, all'origine del consolidanmento del regime fascista e delle sue strutture istituzionalin e normative, dove il racconto storico cede il passo ai tormenti e ai calcoli del dittatore e della sua corte di assassini e vassalli. Siamo così costretti a rifare daccapo il percorso di una vicenda emblematica che, ancora una volta, finì per mostrare l'inadeguatezza di un sitema politico e di rappresentanti dell'opposizione  incapaci di entrare in connessione con quella parte, che appariva maggioritaria, del Paese che avrebbe potuto rimettre in discussione il governo fascista. L'altro passaggio è sicuramente rappresentato dalla descrizione del patetico tentativo di ricostituire regime fascista in forma repubblicana con la cosiddetta Repubblica di Salò.  Anche qui il racconto dei fatti, che pure ci sono, è sovravanzato dal disvelamento della ridicola funzione in cui Mussolini e i pochi gerarchi rimastigli fedeli sono confinati da parte di Hitler, di cui sono sostanzialmente prigioneri. Il che non impedisce loro di perpetrare odiosi e drammatici crimini, non fosse altro supportando i nazisti nella sequela di barbarie, di cui le Fosse ardeatine sono sicuramente la più odiosa, che si snoderanno lungo la ritirata sulla linea Maginor, da Marzabotto a Sant'Anna di Stazzema, a Civitella e tante altre finalmente venute alla luce dopo decenni di oblio asservito alla ragion di Stato. Altrettanto emblematico di questo modo, da romanzo storico appunto, di procedere da parte di Scurati, lo ritroviamo nella descrizione delle vicende di Mussolini e dei suoi gerarchi (una parte dei quali così odiosi che perfino il regime fascista nel periodo dei suoi fasti aveva provveduto ad accantonare e ora richiamati a servizio della ridicola Repubblica Sociale Italiana). C'è poi l'intreccio con la giovane amante Edda e i patetici sfoghi cui il fu grande Mussolini si lascia andare con lei alla ricerca di non si capisce quale possibile consolazione. Sono davvero tante le pagine che Scurati, da navigato romanziere, dedica a questa parte finale del libro, ai tormenti, alle bizze, alle nefandezze dei suoi, tanto più atroci quanto oramai palesemente inutuli. Basti pensare alle indecisioni del Duce circa la sorte da riservare, insieme agli altri traditori del Gran Consiglio, a Galeazzo Ciano, il marito della figlia la quale lo implora ripetutamente di salvargli la vita. Mussolini è consapevole di avere perso tutto, compreso il suo potere sugli altri. Eppure non può che decidere per l'esecuzione della sentenza di morte, per non perdere la faccia di fronte a ciò che resta dei suoi seguaci. C'è poi tutta la parte finale riservata al tentativo di fuga di Mussolini stesso e dei pochi rimasti con lui, compreso il famigerato Pavolini. Devo dire di non aver letto mai una ricostruzione, in parte intuitiva, di quella drammatica vicenda, fine all'uccisione da parte dei partigiani inviati dal CNL e dello scempio di Piazzale Loreto. Anche qui, ben oltre la fredda descrizione dei fatti, Scurati ci pone di fronte alla possibile ambiguità, non tanto dei partigiani che intendevano riscattare, tra gli altri, i loro numerosi morti in quellle stesse piazze da parte dei carnefici fascisti. Quanto piuttosto da parte di un popolo che, dopo anni di asservimento all'ideologia fascista, si lasciava ora andare allo scempio di uno e più cadaveri, quasi a volersi riscattare da un troppo lungo periodo di silenzio. Anche su fatti di questo genere, il romanzo di Scurati non ti lascia indifferente e ti costringe, alla luce degli accadimenti, a riflettere e a rafforzare il tuo spirito critico. Che è il passo principale per combattere ideologie come quella fascista. Ma il merito ulteriore, e forso quello maggiore, del libro di Scurati sta nel fatto di avere concluso con questo volume la saga di Mussolini nell'ottantantesimo anniversarioi della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica sulla base della nostra, bella Costituzione antifascista. Essendo tra coloro che hanno avvertito proprio in questi anni (e purtroppo non solo in Italia) tentativi di vario genere per rimettere in discussione i principi basilari sulla natura antifascista, democratica, basata sui principi di solidarietà tra i cittadini e tra i popoli, che ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie tra le nazioni, propri della nostra Costituzione, ho visto nel lavoro egregio di Scurati uno degli strumenti per dare una risposta a questo clima. A condizione, naturalmente, che i libri siano diffusi adeguatamente e che siano accompagnati da un moto civile e culturale di settori maggioritari dei giovani e della popolazione.

Renato Campinoti


06 giugno 2025

Emanuele Trevi: La casa del mago (ponte alle grazie)

Un libro speciale che costringe a guardarsi dentro con attenzione.

Per dire che questo di Trevi è un libro speciale, basterebbe partire dall'incipit, dal quel "lo sai come è fatto" detto poi ripetutamente dalla madre a proposito del padre, il mago del libro. Ci vorranno poi circa duecentocinquanta pagine per farci avvicinare alle svariate sfaccettature di cui è in realtà fatta una personalità forte, complessa, di grandissima cultura come quella del padre di Emanuele Trevi. 
Con un'avvertenza fin dal ricordo del percorso finale della vita di quel grande "guaritore" quando, preoccupati i parenti di capire di cosa avesse bisogno, "non voleva più nulla, se non quello che aveva sempre chiesto al mondo: essere lasciato in pace". E ancora, sempre in quel momento terminale della sua affascinante vita, "rendesse evidente la natura profonda, la quintessenza di un uomo così capace di fare a meno della compagnia del prossimo". 
Poste così le premesse dell'indagine sulla vita e la cultura del proprio genitore, si incappa presto, col trasferimento dell'autore nella "casa del mago", in quello che sembra rappresentare il vero punto di congiunzione tra la vita di questo straordinario personaggio e il suo figlio avvezzo a fare della parola lo strumento del proprio modo di interpretare il mondo, quello suo personale compreso. 
Mi riferisco, per essere chiari, agli studi e alle teorie di Carl Gustav Jung soprattutto attraverso il Libro "Simboli della trasformazione" che, rimasto al centro dell'enorme scrivania presente nella "casa del mago" quando l'autore vi si trasferisce, diverrà un interlocutore importante della ricognizione sulla vita e la cultura del padre e sulla sua acquisita capacità di interpretare la "malattia dell'animo" delle persone e favorirne la cura. 
Naturalmente sono molte le scoperte che Trevi fa sul modo di "studiare" del padre, quel suo "scrivere continuamente", apporre note a lato dei concetti che lo interessavano, talvolta più importanti e di maggiore ampiezza degli stessi concetti espressi dall'autore del libro. "Se sceglieva un qualunque argomento, lo faceva perché per lui era necessario andare a fondo, spremere qualche tipo di succo. Non si arrendeva alla sostanziale, irrimediabile incomprensibilità della vita, alla tirannide dell'insensato".
Un padre così, l'autore ce lo dice quasi di sfuggita, non poteva non essere stato partigiano nelle brigate comuniste. Ma la cosa affascinante di questo bellissimo romanzo è la capacità dell'autore di confondere e intrecciare le trame, iniziando a trasformarlo nel romanzo di lui, l'autore stesso. E lo fa introducendo, nella casa del mago in cui è andato ad abitare, le figure più improbabili e forse vere che danno ritmo e fanno acquisire simpatia dal lettore. 
Dirò subito della Degenerata, quell'improbabile donna di servizio, di origini sudamericane, peruviana per la precisione, che anziché pulire casa, "mi parlava molto. Si trattava di interminabili ciance familiari popolate di peruviani residenti a Roma...". E sarà grazie all'intervento di Rocio, come si faceva chiamare la Degenerata, ("che disapprovava apertamente lo stile di vita monacale che avevo adottato") che entrerà in gioco un altro personaggio di rilievo in questa storia, una donna di particolare bellezza e disponibilità, 
Paradisa come si faceva chiamare. "Non è proprio una puttana, precisò la sua amica (Rocio) come se mi avesse letto nel pensiero". Lascio alla curiosità del lettore gli sviluppi di questo rapporto col l'autore!
Non si può non parlare di un'altra presenza, un pò inquietante, che l'autore introduce nel gruppo delle cose curiose che gli capitano: la visitatrice, con quei passaggi che l'autore immagina notturni (ma la porta rimane sempre chiusa!) che lascia qualcosa (a cominciare da mozziconi di sigaretta) che turbano non poco Trevi. Ma saranno proprio questi strani personaggi che, al momento del loro distacco dall'autore (Rocio e Paradisa rientreranno nel loro Paese d'origine) che lasceranno "rimpianti e nostalgie" nell'autore. 
Ma l'altra qualità del romanzo è da ritrovarsi nell'intreccio ben orchestrato tra il racconto di questi improbabili personaggi, (con atmosfere da "cent'anni di solitudine" di Màrquez), con l'incontro di figure di ben altro spessore e valori. Basterà accennare al rapporto del padre (stessa scuola) con Beppe Fenoglio e i suoi racconti sui Partigiani, alla vicenda personale di un uomo come Ernst Bernhard, che a causa delle leggi razziali di Mussolini, rischiò di morire ucciso da fascisti. E sarà proprio lui, Bernhard, come racconta Pietro Citati, che, accolto il padre depresso dell'autore ("come tanti che hanno combattuto in una guerra stentava a tornare a una vita normale") nel suo studio nell'immediato dopoguerra, "lo trasformò in un guaritore". 
Sarà ancora nello studio del padre che l'autore incontra una antica lucerna, di quelle che facevano luce con l'olio prima dell'invenzione dell'elettricità. "Dopo tanto tempo è finita nella mie mani: simbolo senza dubbio confortante, ma anche ammonitore delle tenebre che incombevano, che sarebbe stato necessario attraversare". 
È l'epilogo di questo libro speciale, ed è come un ammonimento per i nostri giorni. Accade così che un grande scrittore come Trevi, partito per descriverci la straordinaria vicenda del padre, il mago del titolo, "è anche lui un mago. Questo libro è il suo incantesimo", come commenta nell'ultima di copertina Antonio Scurati, uno che di personalità e di scrittura se ne intende non poco.

Renato Campinoti

25 maggio 2025

Roberto Mosi: Tre principesse francesi a Firenze

Sylvia Boucot e le sorelle di Napoleone, Elisa Maciocchi, Paolina Borghese e Carolina Murat.
Ancora uno spaccato di Firenze, al tempo di Napoleone e dopo la sua sconfitta


Ancora una volta la notevole cultura e la ricerca mirata di Roberto Mosi, ci porta a contatto con la grande storia e con le sue ricadute nella vita sociale e culturale di Firenze e della Toscana. Questa volta il filo conduttore del racconto di Roberto è dato dalle memorie di Sylvia Boucot, che per trent'anni, in momenti differenti, fu dama di compagnia delle tre sorelle di Napoleone, raccolte in particolare nel Diario fiorentino. 

In altre occasioni Mosi si era interessato, separatamente, alla vita e al ruolo svolto dalle tre donne che, pur partendo da una relativamente umile vita in Corsica, seppero cavalcare la poderosa onda di potere del fratello, per avvantaggiarsene fino a diventare personaggi a loro volta inserite nei luoghi del potere. 

Questa volta, con grande capacità di tessitura degli avvenimenti, il nostro autore riesce a far girare la vita, le fortune e le sfortune delle sorelle nell'ambito di Firenze e, come inevitabile, di Viareggio e della Toscana. Con uno stacco notevole a Caserta e alla sua meravigliosa Reggia. 

Seguendo il filo delle memorie della dama di compagnia si parte col periodo degli anni trascorsi dalla Boucot con Elisa Bonaparte Baciocchi. Si sa che dopo aver sposato Felice Baciocchi,e dopo che solo una figlia, Elisa Napoleona, riuscì a raggiungere la maggiore età, i due coniugi faranno vite separate e frequenteranno persone diverse. Elisa Baciocchi, dopo aver assunto il titolo, non senza difficoltà, di Granduchessa di Toscana, dimostrerà di saper esercitare il suo ruolo in maniera esemplare, del resto già dimostrato nelle esperienze di Lucca, Piombino e Massa. 

Il fratello Napoleone, come riferisce Sylvia Boucot nella raccolta "Il teatro allo specchio" considerava Elisa "il migliore dei suoi ministri, gestisce con efficacia il potere seguendo gli indirizzi stabiliti dal fratello, tanto è vero che, rispetto alle altre città italiane, Firenze costituisce un caso esemplare degli effetti della politica francese in Italia. La politica urbanistica si impone per la correttezza amministrativa... I migliori architetti progettano interventi... per aggiornare l'impianto e la qualità dello spazio urbano... di piazza della Signoria, piazza del Duomo, piazza San Giovanni, tutte interessate da ampliamenti e dalla riqualificazione della cortina edilizia." 

Saranno anche altri gli interventi urbanistici pensati per la città di Firenze (come del resto Elisa aveva già fatto anche nell'area di Piombino con la nuova "Via della principessa" tuttora a lei dedicata!), basti pensare al progetto del canale navigabile sulla riva destra dell'Arno, con inizio in piazza Ognissanti trasformata in un porto capace di ospitare trenta battelli grandi e quaranta piccoli, all'ingresso del porto un arco monumentale: la porta di Firenze verso il mare e il mondo. 

Come era inevitabile, dopo la caduta del fratello nel 1814, finisce anche il regno di Elisa, che è costretta alla fuga da Lucca, il 14 marzo di quell'anno, ben descritta dalla figlia Napoleona, insieme, appunto, alla figlia di otto anni e al giovane compagno di quel periodo, il marchese Luccherini. Sempre nel ricordo della figlia: "Mi fa piacere... ricordare il carattere di donna forte, deciso di mia madre, nel quale mi riconosco... superò con coraggio le infinite prove alle quali fu sottoposta per decisione di Metternich... Arrivarono poi i giorni felici di Villa Vicentina nella campagna triestina. La famiglia si ricompose. Tornarono i giorni della passione per la lettura, il teatro, l'arte... E questo fino all'agosto del 1820, al fatale bagno nelle acque termali della palude di Monfalcone". Elisa fu sepolta nella cattedrale di San Petronio a Bologna, nella cappella della famiglia del marito, Maciocchi.

"Paolina é la sorella prediletta e più amata dall'imperatore, con un carattere capriccioso e frivolo ma, allo stesso tempo, generosa, molto legata al fratello Napoleone". La fama in vita e dopo le derivò soprattutto dalla sua bellezza e da quella immortalata dal Canova nel capolavoro della "Venere vincitrice", tuttora oggetto di meraviglia e di continue visite nella villa Borghese a Roma. Si sa di lei che, dopo lo sfortunato matrimonio con l'ufficiale di Napoleone, Victor Leclerc, morto di febbe gialla a Santo Domingo dove era stato inviato per domane una rivolta, incontrò Camillo Borghese e, per il suo tramite, il Canova. 
Per un periodo a Roma organizzò anche un salotto nella Villa Paolina presso le mura aureliane, per trasferirsi poi a Firenze nel palazzo Salviati-Borghese di via Ghibellina prima, nella villa di Montughi della famiglia Strozzi poi, quando è già assalita dalla malattia. Sarà ancora una volta la dama di compagnia Sylvia Boucot, nel suo Diario fiorentino, a raccontarci l'ultimo periodo della vita della donna più bella del mondo, secondo i canoni adottati anche dal Canova. 
Sono pagine, quelle del Diario della Boucut, che giustamente Mosi ci presenta distesamente e invito il lettore ad approfittarne perché rappresentano uno spaccato interessante della Firenze degli anni '20 dell'ottocento, e delle ultime ore di Paolina. Fino alla dettatura delle sue volontà, di essere imbalsamata e posta nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Paolina, come ci ricorda Roberto, "é stata l'unica sorella cui Napoleone non aveva donato né corona né trono, eppure essa volle accompagnare il fratello nel suo esilio all'isola d'Elba...  Durante l'esilio di Napoleone a San'Elena Paolina cercò in ogni modo, ma invano, di raggiungere il fratello e seppe della sua morte solo due mesi dopo". 
Paolina è davvero la sorella più amata da Napoleone, che ne ricorda la generosità: "Paolina era troppo prodiga, troppo abituata alle spese eccessive. I miei doni avrebbero potuto arricchirla, ma ella amava il lusso, ed essendo benefica donava tutto".
Della terza sorella di Napoleone, Carolina Bonaparte Murat, Mosi ci presenta una notevole mole di notizie, grazie al fatto è di "ben tredici anni il periodo che Sylvia Boucot trascorre con Carolina Bonaparte Murat, i parte a Vienna, a Trieste e poi, dal 1931, a Firenze dove la regina di Napoli muore nel 1839 a 58 anni". 
La più giovane delle sorelle di Napoleone, costretta alla fuga con la madre dalla Corsica, raggiunse nel 1796 il fratello Napoleone, già comandante d'Italia, a Mombello, vicino a Milano, dove incontrò anche il generale Gioacchino Murat che diventò suo marito. Quando il fratello regalò alla famiglia il regno di Napoli, sarà lei, con Murat impegnato nell'esercito e ne tentativo di conquistare la Sicilia, a reggere il regno, rinnovando le strutture amministrative, completando istituzioni come l'Orto botanico, l'osservatorio astronomico, il teatro San Carlo e tanti interventi infrastrutturali e urbanistici. 
"Carolina è la regina reggente, il vero motore della vita artistica e culturale, si occupa degli affari generali con passione e grande abilità politica, tanto che Talleyrand disse di lei: 'ha una testa di Talleyrand sul corpo di una bella donna". Ancora una volta, insomma, è dimostrato che le sorelle, pur beneficiate dal fratello padrone del mondo, sono all'altezza degli incarichi che vengono offerti loro. 
Naturalmente per Carolina, la più giovane, resta molto tempo da vivere dopo la caduta del fratello. E qui Mosi riesce a ricostruire con grande abilità il periodo che la regina di Napoli riesce a trascorrere a Firenze, l'uico luogo che le potenze vincitrici sul fratello, le permettono infine di frequentare. 
Sono tantissime le traversie che Carolina è costretta a vivere, compreso l'impegno per farsi assegnare una rendita dal governo francese al posto dei beni da lei donati al fratello. Ci sarà, infine, spazio, per un nuovo, breve, matrimonio con un generale di suo fratello, Macdonald, che morirà due anni prima di lei. 
Belle, infine, le pagine che Mosi ci regala sul rapporto di Carolina con la zona di Ognissanti e la sua Chiesa, nella quale, infine, verrà seppellita. 
Ma la novità ancora più affascinante di questo bellissimo racconto, arriva nella parte finale, dove Roberto, dopo aver reso omaggio all'Istituto Francese Fondato nel 1907, (il più antico istituto culturale francese nel mondo) e alla mostra "la Firenze sognata", incontra una gentile bibliotecaria francese che gli mostra il collegamento tra quella biblioteca e la biblioteca nazionale francese che gli permette di accedere al giudizio di Napoleone sulle sue sorelle, cui, naturalmente rimando alla curiosità del lettore di questo affascinante lavoro di Roberto. 
Così come rimando alla lettura del testo per scoprire cosa raccontano, in una ricostruzione virtuale, le tre sorelle dei momenti topici della vita del fratello, a cominciare dall'incoronazione imperiale. a Notre Dame del 2 gennaio del 1804. Naturalmente Mosi non poteva chiudere la sua originale fatica senza accostare la chiesa della sepoltura di Carolina e della zona del Palazzo francese, alla vita fiorentina a cominciare dal quartiere di residenza e di vita della famiglia Vespucci, di quell'Amerigo che ha dato il suo nome alla più grande, finora, potenza del mondo. 
Si chiude infine questo libro e si è grati all'amico scrittore per averci fatto fare un passo avanti nella nostra modesta conoscenza della storia non solo fiorentina e, soprattutto, avendoci fatto divertire e imparare a collegare storia, visita dei luoghi, viaggi di ricerca. Ancora una volta grazie Roberto Mosi.

Renato Campinoti

15 maggio 2025

Paolo Ciampi: Gli occhi di Firenze (BEE le città)

Sotto un'apparente ritrosia ad avviare il tour della sua città per conto dell'editore in questione, Paolo Ciampi finisce per regalarci una delle più complete e argute ricostruzioni della sua (e nostra) città.
Quante volte Paolo, da grande camminatore/scrittore, ci ha offerto descrizioni e intrecci tra paesaggio, storia, reminiscenze culturali che ci hanno lasciato a bocca aperta! Mi viene in mente, per non far torto a tutte le altre, "In cammino con Matilda", sicuramente uno dei più godibili racconti del genere.
In questo, tuttavia, sarà perché è la sua città, in un certo senso anche un pezzo importante della sua storia, Ciampi si supera e ci da una dritta per come si dovrebbe intrecciare la descrizione delle storie di una città, con le ricadute, culturali e sociali, su chi nella città ha speso un bel pezzo di vita.
Da dove cominciare per rendere l'idea? Da dove comincia lui, da quel Zoroastro da Peretola che, per dimostrare a Leonardo che l'imitazione del volo degli uccelli poteva funzionare anche sull'uomo per volare, finì per rompersi qualche osso buttandosi giù da Montececeri. Sarà lì che Ciampi lascia la macchina per avviare il suo immaginario giro della città. E sarà solo duecentocinquanta pagine dopo che, prima di andare a cena dai Fratelloni in piazza Giorgini, si ricorderà di farsi portare a riprenderla.
Nel mezzo una meravigliosa e notevole serie di incontri col passato, ma anche col presente, fatto di una quantità e qualità così ampia di spezzoni storici o di attualità che non ci sarà nessuno che non dica: "Questa non la sapevo neppure io", intendendo che, pur convinto come il sottoscritto di sapere tutto su Firenze, l'agile e interessante libro di Ciampi finirà comunque per sorprenderti.
Lasciando alla soddisfazione del lettore curioso tantissime storie, ricordo solo quella di Pico della Mirandola e di Angelo, alias il Poliziano da Montepulciano, il maggior poeta del tempo. Due giovanissimi, della ristretta cerchia di Lorenzo il Magnifico, morti entrambi in circostanze misteriose. Da gustare la ricostruzione dell'autore di quelle vicende. Come è altrettanto gustosa la ricerca di Ciampi della bottega di Cimabue in Borgo Allegri, con tutte le scoperte che ne conseguono.
Ma, come ho detto, ogni pagina in realtà è una scoperta, di storia e di storie della nostra città, che un autore di viaggi e di luoghi come Ciampi riesce a rinverdire e innovare facendoci ancora più sorprendere e amare questa nostra meravigliosa città.

Renato Campinoti

04 maggio 2025

Roberto Mosi: Il diario fiorentino di Rainer M. Rilke per Lou Salomé

Ancora un tassello importante del rapporto tra la cultura europea e lo studio del Rinascimento fiorentino

Prosegue, con questo interessante volume di Roberto Mosi, quella che l'editore Angelo Pontecorboli sta meritatamente realizzando come una vera e propria "biblioteca" della presenza degli artisti stranieri a Firenze tra la fine dell'ottocento e la metà del novecento. 
Ancora una volta, grazie alla competenza e al lavoro di scavo di Mosi, l'obbiettivo di mettere il lettore fiorentino di fronte a qualcosa di nuovo e di importante è ampiamente riuscito. Non che fossero mancate in passato opere relative all'attività giovanile di Rilke, dedicata appunto a quell'amore (o infatuazione!) che la più matura e navigata Luo Salomé aveva saputo far nascere nel diciannovenne poeta. 
Sarà proprio lei, nel frattempo convolata a nozze con ben altro "partito", a invitarlo a farsi le ossa nella città del giglio, dove avrebbe potuto incontrare i caratteri originali della sua poetica. E sarà sempre lei a introdurlo, prima di questo viaggio, nell'ambiente artistico tedesco di questo periodo che, giustamente, Mosi ci fa conoscere a premessa dello sfoglio del Diario medesimo. 
Già questo, di mettere in contatto il giovane poeta in fieri con l'ambiente culturale tedesco del periodo è merito non banale del lavoro di Roberto. Veniamo così a conoscere come, in una città come Monaco, all'avanguardia dell'arte germanica, cominciano a sbocciare i nuovi segni artistici, della cosiddetta arte Jugendstil che, nell'ottica del giovane poeta, possono rappresentare uno sviluppo della stessa arte rinascimentale di Firenze. 
Qui arriviamo al vero e proprio nucleo fondante del pensiero artistico di Rilke, e non solo di lui, rispetto a quello che, dall'arrivo a Firenze nel 1898, sarà la presa di coscienza e l'interpretazione di questa realtà culturale. "Ѐ sorprendente - ci avverte l'autore - come Firenze e il periodo più celebre della sua storia, il Rinascimento, siano al centro degli interessi di alcuni importanti personaggi della cultura europea, nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento: Rainer Maria Rilke, considerato uno dei più grandi poeti di lingua tedesca e Lou Salomé, interprete originale dei fermenti culturali dell'epoca, strettamente legata alle vicende di Friedrich Wilhelm Nietzsche e Sigmund Freud". 
Una volta arrivato a Firenze a metà del mese di Aprile del 1898 e presa dimora al terzo piano della pensione Benoit, al numero 13 di lungarno Serristori, Rilke dette inizio alla composizione del diario, comprensivo ovviamente delle visite alle tante realtà culturali della città e alle impressioni che tutto ciò suscita in lui. 
Al lettore, ovviamente, il ripasso di questa parte, in parte poetica, in parte di maturazione culturale, del giovane poeta. A questa esperienza va aggiunta la cosiddetta "fuga" che Rilke, a Maggio inoltrato, fece nella città di Viareggio, dove pure, l'ambiente marino, l'attività del porto e le reminiscenze culturali, contribuiranno a definire quella posizione culturale che è il vero lascito del Diario fiorentino. Vale a dire la convinzione che l'impatto con Firenze e Viareggio, lasciano in lui di trovarsi di fronte, nell'arte fiorentina del primo Rinascimento, ad una sorta di Primavera (incarnata anche dalle opere principali del Botticelli!) che tuttavia deve trovare altro per sbocciare in una più matura "estate" dell'arte. 
Ѐ da capire, anche sulla base di una più attenta lettura delle migliori poesie di Rilke di questo periodo, se sia da intendere che il giovane poeta di lingua tedesca si sentisse già investito di questa potenzialità di dare sbocco all'"estate" culturale che il primo periodo del Rinascimento fiorentino non ha saputo portare a termine, o non sia piuttosto l'insieme del movimento culturale dello Jugendstil, lui compreso naturalmente, incaricato di una tale missione. 
Quel che è certo é che l'opera di Mosi, davvero ben strutturata e meritevole, ha compiuto anche una funzione culturale, per me di sicuro, in grado di collocare l'arte e gli artisti tedeschi di questo periodo in un contesto dialettico, e perciò vitale e positivo, con la cultura del rinascimento fiorentino E, merito non secondario di Mosi, è il metodo con cui perviene a tale risultato, attraverso l'ingaggio, diciamo così, del gruppo di lettura della biblioteca del Palazzo di parte Guelfa, con il quale ripercorre le tracce della presenza e degli scenari con cui viene a contatto il giovane poeta di lingua tedesca, sia nella realtà fiorentina che a Viareggio. 
Come il lettore potrà vedere, si tratta di un impegno di alcune ore, disteso in pochi giorni, ma che fungerà da laboratorio di assemblaggio e di approfondimento sia della narrazione offerta dal Diario, che rispetto alle tesi ivi esposte relative al contatto con la cultura rinascimentale fiorentina. 
Mosi terminerà questo interessante lavoro di recupero del rapporto di Rilke giovane con la nostra regione, indicando anche in questa occasione, come suo solito, l'individuazione di un "sentiero" Rilke in Toscana, in questo caso articolato appunto tra Firenze e Viareggio. 
Dicevamo all'inizio che non è la prima volta che viene affrontato il tema del rapporto tra il giovane Rilke e la toscana, ma credo si possa dire che nessuno lo ha affrontato, come Mosi, con una visione corale e al tempo stesso, visiva e geografica, di questa bella esperienza capitata alla città del giglio. Anche di questo credo dobbiamo essere riconoscenti allo scrupoloso e colto scrittore fiorentino.

Renato Campinoti

Roberto Mosi: Il diario fiorentino di Rainer M. Rilke per Lou Salomé (Angelo Pontecorboli Editore Firenze)

02 maggio 2025

Andrea Bajani: L'anniversario

Andrea Bajani: L'anniversario (Feltrinelli)

Quando il patriarcato si fa violenza psicologica e distrugge la vita di tutti

Questo libro crudo e crudele (e purtroppo tanto pieno di verità!) di Bajani andrebbe imposto alla lettura di quei soloni, spesso purtroppo anche con incarichi governativi, i quali, di fronte all' ennesimo caso di femminicidio (sempre più frequenti e crudeli) si inventano presunte "culture straniere minoritarie", alludendo ai soliti emigranti, colpevoli di tutto, nonostante l'evidenza di italianità dei peggiori delitti verso le donne perpetrati in questi anni. 
Così come cercano di ridurre la cultura "patriarcale", purtroppo ancora imperante, come una sorta di residuo minoritario e innocuo. "Quello che mia madre viveva era un patriarcato... più vicino a un totalitarismo: mio padre teneva i conti, guidava l'auto, stabiliva le linee dell'educazione di noi figli... e a lei restava la gestione spicciola del cambio letti, cucina e pulizie. Ovvero, lei stava dentro un potere assoluto in cui il marito era la voce, e il braccio, della legge." 
Vista nell'ottica corretta, sono molti i meriti di quest'opera di Bajani. A cominciare da una capacità narrativa e letteraria che la sottraggono al rischio, in cui è facile cadere, di una mera elencazione di fatti e accadimenti tipici di queste vicende, ma inadeguata a entrare nell'animo e nella testa di qualunque lettore. 
Quando la mamma, per un breve periodo, entrò come cassiera in un supermercato, sembrò che una certa vitalità potesse entrare dentro casa. "Per impossibilità di esprimerlo, però, quell'istinto alla socievolezza divenne per mia madre una sorta di malattia autoimmune. La colpì dall'interno il tessuto nervoso e il suo slancio verso la vita e la fantasia, che era probabilmente l'attitudine più pericolosa visto che poteva offrire altre opzioni di esistenza.
Il lettore avrà modo di incontrare spesso passi simili, espressi in una forma letteraria particolare, la quale ha il duplice merito di penetrare a fondo nell'attenzione del pubblico, così come di dare un ritmo particolare alla sequenza dei fatti raccontati che finiscono per incuriosire e destare sorpresa e curiosità. Ma il merito ancora più grande di questa impegnativa opera di Bajani sta, secondo me, nel disvelamento di un mondo patriarcale, a vari livelli di intensità e espressione che fanno impallidire, per diffusione e casistiche, i pur drammatici e insopportabili casi di femminicidio che salgono all'onore delle cronache, talvolta narrate in forma più romanzata che nella loro essenza sociale e personale. 
Lo stesso episodio di amicizia tra la madre e una donna, apparentemente fuori dallo schema patriarcale, sembra fungere, nella logica del romanzo, proprio come espressione di una ulteriore forma del genere, solo attenuta dall'attività lavorativa della donna (e non è poco!). In sostanza il primo, grande allarme che il romanzo ci lancia è: non sottovalutate il pericolo del patriarcato nella nostra realtà. Esso è ben più diffuso e pericoloso di quel che si crede. 
Di più, nel caso che essi diventi "totalitario" come nel caso della famiglia in questione, è capace di distruggere alla radice, non solo le vittime prime, la donna per intendersi, ma tutti i componenti della famiglia. Perfino chi, come la sorella del narratore, sembra trovare una modalità di uscita e di sottrazione dal "mostro", è tuttavia costretta a pagare il pegno di una incapacità a vivere in maniera decente il rapporto di fratellanza. 
Di fronte alla brutalità di una forma così estrema, da cui non riuscirà mai a guarire del tutto neppure il fratello che abbandona la famiglia, due sono le domande che sorgono quasi naturali. Niente è peggiore dell'assassinio, col femminicidio, di un essere umano. Ma si può parlare di vita per quelle vittime, come la madre in questo caso, che, dal patriarcato del marito "venne colpita a morte e sopravvisse lasciandosi morire"? Sorge allora la seconda domanda. In questo caso, pur subendo una grandissima violenza, talvolta anche fisica, la moglie non subisce l'atto finale del femminicidio. E non lo subisce perché, pur manifestando qualche barlume di autonomia, non arriva mai a praticarla realmente. 
Cosa sarebbe successo se, in una occasione, anche sotto la spinta della figlia, la donna avesse davvero manifestato l'intenzione di sottrarsi definitivamente a questo dominio assoluto? La risposta è fin troppo facile. E fa allora sorgere l'ultima, più pesante riflessione. Questo scrittore, secondo me, merita di più che uno Strega, non fosse altro perché ha sicuramente aiutato tutti noi suoi lettori a cogliere la drammatica sproporzione tra la vastità e gravità della presenza di simili manifestazioni di patriarcato (con la continua possibilità di trasformarsi in omicidio!) e il diffuso disinteresse delle istituzioni preposte, quando non manifestano la negazione in radice del problema e la banale riduzione a una casistica minoritaria. 
Quando, infine, non arriva a incolpare direttamente le vittime che, col loro comportamento, vestiario, pretese libertine ecc., innescano loro stesse la reazione che solo noi chiamiamo "patriarcale". 
Grazie Bajani di averci offerto uno strumento ulteriore per superare fino in fondo, anche noi, questa peste culturale che continua a mietere, giorno per giorno, le sue vittime, senza diminuire il bacino di coltura che tu ci hai mostrato!

Renato Campinoti

11 aprile 2025

Maila Meini: Bagliori ricamati dalla brina A.L.A. libri)

Quando la vita è sospesa tra ricordi, dolori e una nuova utopia

Ancora una volta questa poetessa ci sorprende! Intanto perchè, più ancora che nelle altre silloge, pur notevoli tutte, maneggia con ancora più sensibilità e competenza letteraria il linguaggio poetico, regalandoci un numero non banale di poesie dove l'urgenza del fascino poetico sopravanza perfino il bisogno di parlarci di lei e dei suoi stati d'animo, ben presenti nell'economia della raccolta. 
Rientrano in questa tipologia, che chiamerei di "pura poesia" quelle che più di altre sembrano sgorgare da un incontro felice tra il paesaggio e la sensibilità dell'autrice. Per fare qualche esempio penso alla seconda poesia della raccolta ("Quasi ora di cena") dove i "colli ombrosi" spuntano "come una nera/ massa di dubbi che invadono il tutto". 
Capostipite di questo gruppo considero senz'altro la poesia "Agosto" dove Maila ci porta in un momento magico nel quale "le fronde disegnano col vento/ ombre tremanti, smarriti fantasmi,/ inconsistenti diafani profili./Per un istante respiro l'eterno". Ancora da segnalare la poesia "Respiro la sera". Bastano tre righe per farci intendere la profondità poetica raggiunta da Maila: "Respiro la sera sul confine / del nulla quando semi invisibili / sono le parole prima che le scriva". 
Invito a leggere un testo come "Non distinguo" dove "Piante tremanti in sagome spettrali / sembrano ergersi in piedi per ripicca". Per finire (e facendo un torto ad altre poesie di questa specie) non posso non indicare "Trema il respiro", nella quale "Sugli alberi spogli, a perdita d'occhio, / l'inverno veli di brina posa. Trema il respiro nell'immobilità." 
 Reso omaggio a questo gruppo, peraltro godibilissimo, di poesie, ancora una volta il cuore della silloge è nelle note autobiografiche che Maila vuole trasmetterci. Stando ben attenti a riconoscere il filtro poetico con cui esalta o attutisce il reale sentimento che vuole trasmettere a noi e a se stessa. Si va così da un nutrito gruppo di poesie in cui il sentimento dominante è la Nostalgia e/o Malinconia, riferita al bel tempo che fu nella giovinezza, come pure ad amori rimpianti e svaniti, alla perdita di persone care. 
La poesia che più di tutte trasmette ed esalta questi sentimenti è quella che Maila chiama, non per caso, "La mia vita" dove la poetessa, non riuscendo ad addormentarsi come le capita sempre più spesso "vago negli anni e nei ricordi". Ci si potrebbe aspettare un ricordo di persone o di avvenimenti, invece la nostalgia riporta ancora una volta Maila al suo mare dove "la risacca schiumava le caviglie / con il mormorio sommesso delle onde". 
Non appaiono immagini in questa descrizione ma ancora e solo mare e tempesta. "Gli occhi già aprivo in una stanza / curiosamente silenziosa e fioca... Alla fine è scoppiata la tempesta". In questa, che è sicuramente la più lunga e la più evocativa della silloge, il ricordo riesce ad incontrare solo la natura allo stato più duro: "Passo sotto il ponte del cavalcavia / in un tempo grigio che rischiara /a stento un cielo tempestoso..."  Gli umani sembrano scomparsi o ridotti ad una caricatura: "...Solo appare / qualche sagoma spettrale, gente che / va come chi raccoglie le conchiglie". 
Alla fine la nostalgia si trasforma in amarezza ("Alla fine mi volto sconsolata / appoggio la testa sul cuscino"), in questa che è sicuramente la più intima e bella della raccolta. Sono molte le poesie cui mi sono trovato a scrivere sotto la parola "nostalgia" e altrettante quelle sotto le quali ho scritto "malinconia". Di queste ultime cito solo "Un sentore impercettibile", quella che meglio, secondo me, rappresenta un sentimento così struggente e vorrei dire tipico della grande poesia. Leggetela e capirete da voi cosa significa per Maila "un sentore/impercettibile di fuochi spenti", semplicemente fantastica! 
C'è in questa, come in molte altre poesie, una caratteristica che non può sfuggirci: l'insonnia! Maila scrive molte delle sue più belle frasi e ci trasmette i sentimenti più forti quando, come ci dice nella bella poesia "Di notte", "Quando il senso dei rimpianti è forte / fluttua il sonno sopra la mia testa /...ma non scende... di notte non sembra mia la casa / Con occhi di ladro tutto scruto... E niente voglio davvero riavere" . 
Eppure, nonostante le amarezze, la nostalgia, i rimpianti che percorrono tante poesie della silloge, Maila non vuole arrendersi all'evidenza della vita che le è toccata. Neppure quando la solitudine la assale e fa crescere il lei l'amarezza. Emblematica la poesia "Bene o male", bellissima: "Bene o male il giorno sopravvivo / ...invece nel cuore della notte / ...stormi di fantasmi / alati trapassano le tenebre / sui sentieri invisibili dell'ieri... / Eccole, le vedo le persone / che ho tanto amato e non ci sono più. / Le mani restan vuote. E sono sola." 
Tuttavia Maila non si arrende e in tutta la silloge si alternano questi momenti di nostalgia, di insonnia, di senso di solitudine, a momenti di speranza e "in cerca ancora di armonie composte / e di un frullio di ali spensierate" (L'Ultima eco - (compleanno) ). Maila ci confessa che ha imparato perfino a combattere i momenti di scoramento. Nella breve ma intensa poesia "Reduce" ci confida come lei, "veterana della malasorte / Ho costruito ormai anti corpi grossi/come le pantegane dentro il fiume / Se cammino triste e a spalle basse / l'animo invadono e senza pietà / distruggono le paure come niente". 
Nella sua battaglia contro la solitudine e il senso di sconforto che spesso la abbattono, irrompono tuttavia le novità della sua vita. Emblematica la poesia "In quarantena", dove, proprio per l'isolamento imposto dal Covid "Là fuori il mondo gira piano ...a volte m'attraversa l'idea strana/ di essere abbandonata sul pianeta / Poi sento voci fuori della porta. / Apro e vedo, sfuggenti ma reali, / mia figlia e i miei nipoti sorridenti/ che, indaffarati, salgono le scale. / E per qualche tempo, questo basta!
Dunque c'è qualcosa e qualcuno, soprattutto, che sta a cuore a Maila tanto da farselo bastare per uscire dalla tristezza e dal senso di abbandono. Ma ci sono almeno due altre cose che concorrono a combattere il senso di solitudine e il pessimismo della grande poetessa. "Le emozioni si frangono come onde/ su una spiaggia...Solo, è assoluto/ il silenzio della casa vuota,/eccetto i cani. Ma sono in pace". In questa poesia, "Anomale correnti", entrano per una delle poche volte in scena "i cani", che, per chi la conosce, sa quanto concorrano a rendere meno agra la vita di Maila. 
Infine, c'è un altro soggetto, forse il più importante per questa poetessa speciale, e lo si capisce in una delle più belle e intime poesie dell'intera silloge: "Tienimi con te". "Leggimi ogni tanto. Tienimi con te,/se non ti sarò accanto di persona./...Tienimi con te, non mi far sparire..." Chi è in questa poesia che Maila sta cercando? E perché lo cerca? Forse nelle risposte a questi interrogativi si trova gran parte della logica di questa bellissima raccolta. 
Abbiamo visto fin qui come in questa silloge Maila oscilli tra un pessimismo e un senso di abbandono, anche per il tempo che passa, e una reazione che, insieme alle sue persone o cose care di questa fase della vita, le impediscono di abbandonarsi a quel "pessimismo cosmico" tipico di alcuni dei nostri maggiori poeti. Ecco allora una risposta possibile: Maila sta parlando alla persona a cui tiene di più, il suo lettore. È a lui che sta parlando ed è a lui che chiede "Tienimi con te, non mi far sparire". 
Ma perchè ci tiene così tanto a non essere abbandonata dal lettore? "Ho paura del buio che dissolve, quello che/spenge l'essenza di chi è passato senza/lasciar di sè traccia sulla Terra". Ecco qualcosa che forse Maila non ci aveva mai detto così esplicitamente. Ce lo aveva sussurrato in qualche altra poesia: "Pochi sanno che nelle notti scure/un bagliore c'è sempre. È il vento/che raccoglie le anime assonnate/e le accompagna in viaggio per le stelle" (Quando la luce). O ancora "In paziente attesa resto di un dio/che rovesci una caraffa di luce/scintillante fra le nubi grigie/ e oltre quelle luccichi l'eternità". (In paziente attesa). 
Dunque, sembra suggerirci Maila con questa nuova, in molti sensi, silloge, ascoltate con me i fantasmi e i dolori del passato. Ma non disperate. La poesia (o l'arte in generale?) possono ancora salvarvi e impedirvi di passare sulla terra "senza lasciare traccia di sè" . Tutto ciò non ci impedisce di soffrire, ma ci sprona a dare il meglio di noi! In tempiu come quelli che viviamo non possiamo che dire: "Grazie Maila, grande poetessa e grande maestra di vita!"

Renato Campinoti