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17 novembre 2024

 

Questa bella e puntuale recensione è di ANTONELLA CIPRIANI

(Poichè la condivido in pieno, la pubblico sul mio blog e invito i miei tre lettori a leggerla)


L’ORA DI GRECO di Han Kang

 

Dopo La vegetariana, sapevo che sarei andata incontro a una lettura non facile, ma non avrei mai immaginato di ritrovarmi un testo così articolato, da leggere un po’ alla volta, a piccoli sorsi come una bevanda troppo calda che rischia di bruciarti la gola. Sì, perché ho trovato L’ora di greco un libro assai complesso, almeno nella struttura anche se si deve forse a questa peculiarità parte del merito e della bellezza.

A differenza del libro precedente (dal quale non posso separarmi) che aveva una forma più definita e chiara – perché diviso in tre parti, di cui ciascuna descriveva il punto di vista di un personaggio – qui la struttura invece appare stravolta, perché l’autrice sembra avanzare più per sensazioni che per logica, creando un puzzle di immagini, suoni, profumi, odori e sensazioni tattili legate alle vicende, che il lettore stesso deve essere abile a ricomporre, per seguire la trama delle storie in una Seoul indistinta.

Lo stile è caratteristico e audace. L’autrice si destreggia con maestria passando velocemente dalla terza alla prima persona, per infine inserire anche la seconda persona (nei monologhi del professore con l’amico Joachim Gründel e con la sorella Ran) mantenendo però sempre fermi i punti di vista dei protagonisti.

Due sono i personaggi principali, semplicemente la “donna”e l’“uomo”, due esseri umani senza l’ importanza del nome – nonostante la loro forte individualità – due esistenze simili che incrociano i loro destini segnati dalle loro specifiche mancanze: la vista per lui, la parola per lei.

E nell’ aula – dove lui, il professore, insegna greco mentre lei segue le sue lezioni – tra le strade di Seoul, nell’appartamento senza luce e vuoto di lei, si muovono le loro storie, frammentate dai ricordi di un passato, ora dell’uno ora dell’altra, che ricompongono lentamente il quadro complesso delle loro esistenze.

Ognuno di loro porta con sé il peso del proprio dramma, che la scrittrice sa svelarci con maestria, riproponendo quelli che sono i temi a lei più cari: la famiglia – i rapporti fraterni, coniugali, filiali – l’amore, la solitudine e l’impossibilità di entrare in relazione con l’altro, la diversità o meglio l’unicità, la malattia, la fragilità

Nei personaggi di Han Kang è profondamente radicato “il male di esistere”, come un sintomo che necessita di una cura da ricercare per essere gestito e placato; oppure si va oltre, dove c’è una completa separazione tra il corpo e lo spirito, fino al paradosso di una completa fusione senza più un confine: «A volte, più che una persona, ha l’impressione di essere una sostanza di qualche tipo, un solido o un liquido in movimento. Se sta mangiando del riso caldo, le sembra di essere riso caldo. Se si sta lavando la faccia con acqua fredda, le sembra di essere acqua fredda. Allo stesso tempo, sa benissimo di non essere né riso, né acqua, bensì una materia resistente, spietata, che si rifiuta di mescolarsi con qualunque altra forma di esistenza».

Han Kang sa regalare al lettore (se la sa cogliere) una chiave di lettura nuova, spalancando la porta su un mondo dove le angosce, le paure, le sofferenze diventano immagini, suoni, profumi, trasformando l’emozione in materia e la materia stessa in emozione. Una prosa che in molti tratti si fa poesia.

A testimonianza può bastare questo passaggio nella caratterizzazione della “donna”: «Da quando ha perso l’uso della parola, a volte ha l’impressione che le sue inspirazioni ed espirazioni siano un po’ come il linguaggio. Intaccano il silenzio con altrettanta audacia della voce». Oppure nel parlare del suo mutismo: «Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio» dove si legge tutta la sua ostinazione a non volersi relazionare col mondo; e ancora «Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza».

Interessante la fusione dei sensi, lo sguardo che si sostituisce alla parola e nel caso dell’uomo, la parola che si sostituisce là dove gli occhi non possono più comunicare. E sarà proprio questa combinazione a creare lo spiraglio di luce nel dramma delle loro vite, una possibile riconciliazione col mondo. Un poetico lieto fine (che nel precedente libro mancava) che apre il cuore alla speranza.

 “L’ora di greco di Han Kang” ( Adelphi 2023)

09 novembre 2024

Eugenio Giani: Cosimo I dei Medici, il padre della Toscana moderna

Eugenio Giani: Cosimo I dei Medici, il padre della toscana moderna

Un libro che ci mostra le gesta che sono alla base della nascita della toscana


Chi, come pure il sottoscritto, era convinto di sapere tutto sulla vita e l'opera di Cosimo I dei Medici, non può che rimanere meravigliato dalla lettura di questo bellissimo libro di Eugenio Giani. Troverà infatti in esso così tante vicende e tanti particolari delle iniziative, attività, progetti del primo Granduca di Toscana da rimanerne contento e meravigliato. 
Giani infatti, piuttosto che soffermarsi sugli svolgimenti storici della vita e dell'opera di Cosimo, ha organizzato il fluente e piacevole racconto evidenziando i tanti territori e le molteplici iniziative dove il Medici ha lasciato la sua impronta, allargando il dominio su quasi tutta la Toscana e mettendo le basi per fare della regione una espressione non solo geografica ma statale. 
È così, del resto, che mette in risalto la cosa che più sta a cuore all'autore e che rappresenta il motivo conduttore di tutta l'opera di Giani: Cosimo I dei Medici come il vero "padre della Toscana moderna". Naturalmente niente viene per caso se, come l'autore fa dire ad uno dei più acuti storici della vita del Granduca, Roberto Cantagalli, a proposito della nomina del giovanissimo figlio di Giovanni delle Bande Nere ad appena diciassette anni a Duca di Firenze: "Il ragazzo che aveva allora sul mento la prima lanugine della virilità e appariva... timido ed esitante, pieno di ossequio e rispetto verso i magnifici senatori fiorentini che lo avevano designato a succedere sul trono all'assassinato Duca Alessandro, nel giro di pochi mesi rivelò un insospettato senno, una decisione e una scaltrezza da uomo di Stato più che provetto". 
Se la prima vicenda fortunata per Cosimo è rappresentata dall'uccisione di Alessandro da parte di Lorenzino de' Medici che, in assenza di altri rampolli della casata, gli permetterà di subentrare nella carica di Duca, l'altra parte di fortuna è sicuramente quella nella sfera privata, con la designazione a sua sposa di Eleonora di Toledo, figlia del Vicerè di Napoli, una delle famiglie sotto la protezione dell'imperatore Carlo V. 
Ma la cosa più bella e importante è che "tra di loro scaturisce un amore vero" che di sicuro aiuterà Cosimo ad affrontare con maggiore serenità le gravose incombenze del Ducato. E la terza vicenda a lui favorevole è sicuramente rappresentata dalla benevolenza dell'Imperatore verso il giovane Duca. 
Quando, nel luglio del 1539 i due giovani convoleranno a nozze, per i festeggiamenti non si baderà a spese "A gloria della dinastia dei Medici, ma soprattutto a gloria di Carlo V, perché tutto questo deve dimostrare agli occhi del mondo la fedeltà e la gratitudine di Firenze per l'Imperatore". 
A questo punto Cosimo è pronto per avviare le innumerevoli iniziative che cambieranno in meglio il volto di Firenze e della Toscana. 
Giani parte con riferimento all'Accademia fiorentina, coltivando anche la quale, compresa l'adesione di Benedetto Varchi, incaricato da Cosimo di scrivere la storia di Firenze, Cosimo e Eleonora daranno "l'avvio di una politica culturale che finirà per segnare un'intera epoca". 
Ancora un paio di capitoli di carattere diciamo "privato": la reclusione e la morte nella fortezza da basso di Filippo Strozzi, per la costruzione della quale lo Strozzi aveva generosamente finanziato il Duca Alessandro. Se a questo avvenimento si somma l'acquisto delle fortezze di Firenze e Livorno, liberate così dagli imperiali, si può ben dire che fin dall'inizio del suo Ducato "Cosimo ha fatto in modo che la Toscana non diventasse una provincia dell'impero di Carlo V e nemmeno un dominio del Papa... e ha regalato alla Toscana una storia diversa da larga parte d'Italia". 
Reso omaggio alla morte di quella grande donna che fu Maria Salviati, la madre di Cosimo, il racconto di Giani si dedica ad illustrare, in maniera dettagliata e affascinante, le conquiste di Cosimo in terra di Toscana, ormai sempre di più il suo Regno. Dalla fortificazioni delle zone di confine con le fortezze di Sansepolcro, di San Piero a Sieve, di Cortona, di Montecarlo e Lucignano, all'ammodernamento di quella di Radicofani, fino alle più svariate torri di avvistamento dalla Versilia alla Maremma. 
Sistemata così la sicurezza della Regione, Cosimo passa alla conquista e sistemazione di quella che viene definita la seconda capitale del suo regno: la città di Pisa. 
Giani non trascura ovviamente, insieme all'affascinante racconto sulla vera e propria "nascita" delle fabbriche degli arazzi, il rafforzamento della città capitale, Firenze. Non senza aver prima fatto i conti definitivi con Lorenzino dei Medici, fatto uccidere dai suoi sicari a Venezia il 26 febbraio 1548, dieci anni dopo l'assassinio del Duca Alessandro e il suo insediamento al potere. 
Si giunge così, dopo lo spostamento della famiglia in Palazzo Vecchio, all'acquisto e alla ristrutturazione di Palazzo Pitti, di quella che d'ora in poi sarà la Reggia del Ducato prima, del Granducato poi. 
Si giunge così alla ulteriore tappa del definitivo ampliamento regionale del regno di Cosimo: la conquista di Siena, delle cui impegnative vicende Giani ci restituisce un dettagliato e affascinante racconto. Così come sono da segnalare le belle pagine dedicate al Vasari, alle sue "Vite", alla costruzione degli Uffizi, al rapporto forte con Cosimo per tutta la sua vita. 
Commoventi e intense le pagine dedicate alla prematura morte della moglie Eleonora e dei tre figli a causa delle febbri malariche durante un viaggio verso Livorno e la Maremma. Come, in forma diversa, sono interessanti le descrizioni della nascita e del nuovo sviluppo di quel collegamento fluviale tra Pisa e Livorno col canale dei Navicelli, che sarà anche occasione per ridare fiate al porto fluviale di Firenze, rinnovando l'esperienza del collegamento d'acqua presente già al tempo dei Romani. 
Naturalmente l'autore non trascura niente della vita di Cosimo, fino alla nomina del figlio Francesco come Reggente del regno, alla sua tanto sospirata nomina a Granduca da parte del Papa, alle ulteriori fasi della vita privata del vedovo Cosimo e delle due donne che non saranno comunque in grado di sostituire la sua Eleonora. 
Ma qui conviene fermarsi, lasciare al lettore di concludere le pagine di un libro, ripeto, assolutamente inaspettato e affascinante. Infine lo si chiude e si torna a meravigliarsi di quante iniziative e di quante scelte questo giovane venuto in città dal Mugello in condizioni disperate per la famiglia Medici, ha saputo compiere per regalarci l'ossatura più robusta della nostra meravigliosa regione toscana. E grazie a questo pregevole lavoro di Giani per avercelo mostrato.

Renato Campinoti

03 novembre 2024

Lorenza Pieri: Volevo un regno più grande, Niki de Saint Phalle

“Ho indagato la vita di Niki, l’ho studiata in tutte le lingue che ho imparato”. 
Ci confessa così Lorenza Pieri la sua ammirazione per la vita e la straordinaria bellezza delle opere di Niki de Saint Phalle, l'artista nata a Parigi nel 1930 e da molti conosciuta in Italia per la sua opera più grandiosa: Il Giardino dei Tarocchi. 
Da dove prende la forza creativa e anche quella fisica per arrivare, al culmine di una carriera artistica già grandiosa, a realizzare un'opera certamente "pesante" come quella quando ormai ha superato i sessanta anni? Probabilmente una molla possente per dimostrare che una donna non ha niente di meno di uomo anche fisicamente, la riceve da quello che le accade da bambina e che lei racconterà solo a sua figlia Laura in una lettera che poi diventerà un libro dal titolo non casuale "Mon secret": "L'estate dei serpenti fu quella in cui mio padre, il banchiere, l'aristocratico, mi ha messo il suo sesso in bocca". 
Lo confesserà lei stessa alla figlia in quella lettera: "A chi avrei potuto dirlo?... Questa solitudine forzata ha creato in me lo spazio necessario... per far crescere la mia vita interiore che poi mi ha portato più tardi a diventare un'artista". 
Ma sarà lunga la strada e molti i sacrifici che dovrà sopportare per arrivare a forme di creazione universalmente apprezzate. Arriverà perfino a separarsi dall'uomo che ama e da cui ha avuto la figlia. 
"E dice a Harry per la prima volta di voler andare a vivere da sola... Ha già sperimentato cosa significa perdere la testa e sa qual'è l'antidoto: lavorare senza sosta. Trasformare le ossessioni che invadono la sua mente in creazioni". Dovrà ancora soffrire ma riuscirà nell'intento. 
La nascita dei Tiri, quelle opere che vedono assemblare sulla tela oggetti vari, bambole rotte, coltelli, forbici, abiti imbottiti con sotto sacche di colori ricoperti di gesso bianco. Su tali tele Niki spara con una carabina facendo scendere il colore su tutti gli oggetti come fosse un sanguinamento. 
"Ho sparato per colpire mio padre, tutti gli uomini, mia madre, la chiesa, le convenzioni...", dirà Niki quando il pubblico assiste al suo primo esperimento decretandone un successo enorme. 
Chi vorrà leggere questo agile ma efficacissimo libretto capirà subito la ragione di queste espressioni dell'artista! E non saranno mai casuali le ragioni della sua arte che lei, alternando pittura, scrittura e poesia, elenca nel suo "Muro della rabbia". Si va dalla fame, al fascismo, all'antisemitismo, al sessismo ecc. E otterrà successi in tutto il mondo. Polemizzerà perfino con le femministe per la sua vita dedita anche alla seduzione e agli amanti. Ma lei risponderà con la sua arte e non si preoccupa di quello che dicono di lei. 
Sono molte le opere che si scagliano contro il potere maschile e soprattutto, contro coloro che ne deformano le finalità. Dopo i Tiri arrivano le Nana, sculture di gigantesche donne con le quali Niki "lancia il suo messaggio più dichiaratamente femminista: Gli uomini hanno il potere, le donne la forza creatrice". 
Quando suo padre, che ha tentato inutilmente di riconciliarsi con la figlia stuprata, muore, Niki non solo non andrà ai funerali, ma, alcuni anni dopo, realizzerà un film, Daddy, in cui simila di uccidere il padre 17 volte e lo rappresenta dentro la bara con un gigantesco fallo di cartapesta. Ormai si va verso l'epilogo. 
Grazie all'incontro con Marella Caracciolo, già sposata con Gianni Agnelli, ottiene il terreno e lo spazio necessario per realizzare il sogno di una vita: Il Giardino dei Tarocchi. 
Ci vorranno anni, finanziamenti in qualche modo racimolati, ma alla fine il Giardino vedrà la luce, quando ormai, siamo negli anni anni novanta del secolo scorso, Niki è stremata nell'animo e nel fisico. A questo punto, da vera artista poliedrica quale è, è riuscita a partecipare alla realizzazione di balletti, al lancio di un profumo con gli aromi del suo Giardino. Prima della fine riuscirà a non partecipare, a Israele, all'inaugurazione della mostra di quegli "animali magici" da lei realizzati per i bambini. 
Siamo nel 2001 e Israele porta avanti una forte e sanguinosa repressione contro i Palestinesi. "Il nostro messaggio di pace non può essere sentito tra i colpi di fucile e le bombe", scrive al pubblico motivando il suo rifiuto di presenziare alla mostra. 
Farà in tempo a vedere gli aerei che si schiantano sulle Torri gemelle. Nel maggio del 2002 si spegnerà circondata da amici, figli e nipoti. Lasciandoci un ultimo messaggio di grande attualità e che Lorenza Piera, con questa bellissima biografia, offre anche a noi, troppo spesso distratti dalle nostre quotidiane incombenze.

Renato Campinoti

23 ottobre 2024

Nicoletta Manetti: IO, BEATRICE CENCI - una ragazza romana

Un "femminicidio di stato" che ci interpella ancora oggi

"Non trovo pace per la rabbia, per l'ingiustizia. Non trovo pace perchè vedo che, dopo quattro secoli, se sono diversi i tempi, ad essere le stesse sono le passioni umane, che non scongiurano ancora fosche vicende come la mia". Nasce sicuramente dalle parole che Nicoletta mette in bocca alla sua Beatrice Cenci, a coronamento del drammatico epilogo della vita della ragazza romana, la possente spinta che la induce a scrivere questo vero e proprio capolavoro per lo stile e le passioni che induce. 
La prima scelta che l'autrice compie, di immedesimarsi con il suo personaggio parlando in prima persona, contribuisce molto a dare alla ricostruzione delle vicende di Beatrice Cenci, peraltro ben note e comunque rintracciabili facilmente, un carattere personale e in grado di dialogare in maniera stringente e appassionata con il lettore. Per dirla tutta, Nicoletta riesce a trascinarci dentro la mente, i pensieri, le passioni della protagonista in maniera tale che, se non sei di ghiaccio, finisci per emozionarti come se le cose stessero accadendo mentre le stai leggendo. 
Dote rara questa, che va davvero a merito di uno stile apparentemente sobrio, in realtà quanto di più coinvolgente che si possa incontrare. 
La prima parte del libro è tutto concentrato sul progressivo sviluppo della paura della violenza e della violenza vera e propria che Beatrice sarà costretta a subire dal padre violento e alcolizzato che si ritrova. "Quando nei suoi confronti fu emessa la condanna più infamante, per sodomia, mio padre non riuscì più a scampare al carcere". Sarà paradossalmente solo in questi momenti di tregua, con l'assenza del padre dalla casa di famiglia (una famiglia molto ricca!) che Beatrice riesce a immaginare una sua vita normale, con il personaggio dell'abate Guerra che le dichiara il suo amore, peraltro ricambiato, che non riuscirà mai a mantenere la promessa per il senso di possesso e di morbosa attrazione che il padre proverà per la figlia, fino alla violenza e lo stupro, come è noto. 
Così, quando l'abate si fa avanti per chiedere la mano della figlia. il Conte padre non solo negarà il permesso, ma, per tagliare la testa al toro, arriverà a urlare: "Volete proprio sentirvelo dire? Ѐ la mia amante!". 
Iil carattere brutale, al limite del disumano, del Conte non riguardava solo, ovviamente, il rapporto con la figlia. Per darci uno spaccato del personaggio, in poche pagine la scrittrice ci racconta come due dei figli maschi, cresciuti alla "scuola" della violenza e della prepotenza di famiglia, finiranno per essere uccisi in occasione di risse notturne in compagnie che si possono immaginare. Ciò che colpisce è la reazione del padre che "non versò una lacrima. Non pagò un baiocco per il funerale... Entrambe le volte, davanti ai corpo dei propri figli, sibilò, senza timore di essere sentito: 'Questi figli sono stati una maledizione! Non avrò pace finché non li avrò visti morti tutti'". 
Molte cose avverranno in quella località, la Rocca di Petrella sul Salto, dove il padre porterà lei e la Lucrezia, la nuova sposa dopo che è rimasto vedovo, anch'essa, come la figlia, vittima di eguali violenze. Sarà in questa località sperduta, vicino a Rieti, nel Regno di Napoli, che si consumerà una parte importante della breve vita di Beatrice, che approfitterà delle frequenti assenze del padre per illudersi di poter afferrare un vita normale. 
Addirittura si rivolgerà agli uomini che il padre lascia a custodia dei possedimenti, sperando di essere aiutata a ritrovare un senso alla sua vita. Nasce così, ormai disillusa di un normale rapporto matrimoniale, un rapporto a metà tra il sentimentale e lo strumentale con un uomo di più di quarant'anni (per lei giovanissima da poco ventenne, quasi vecchio!), quell'Olimpio Calvetti, il castellano di quei Colonna, proprietari della tenuta di Petrella, prestata al Conte in quest'occasione. 
Saranno lui e l'altro servitore, Marzio Floriani, coloro da cui si farà aiutare per portare a termine il proposito di uscire dal labirinto di violenza e orrore uccidendo il padre. Sarà Marzio che si farà convincere a recapitare le lettere di richiesta di aiuto che Beatrice scrive al fratello Giacomo, all'abate Guerra e a uno zio, alcune delle quali tuttavia il Conte intercetta e saranno l'elemento scatenante della vendetta verso la figlia, che sarà prima frustata e seviziata di nuovo, quindi reclusa e isolata. "Fece serrare le porte, salvo un piccolo sportello per il cibo... Fu allora che lo condannai definitivamente a morte".
Dopo la maldestra congiura portata a termine da Beatrice con la complicità dei servitori e con l'assenso impaurito di Lucrezia e del fratello Giacomo, inizia la seconda parte del romanzo e l'ultimo periodo della vita di questa bella e sfortunata ragazza. Questa è la parte dove più emerge, con l'avvio delle indagini, la carcerazione di Beatrice e degli altri complici, le torture durissime inflitte, tutta la sofferenza inflitta, ancora in vita, a questa giovane donna. 
Si passa così dall'iniziale felicità del ritorno a Roma, ("giurai a me stessa che avrei trascorso in città il resto della vita") all'inizio delle indagini della polizia papalina, fino alla prima reclusione in galera sia di lei che della matrigna Lucrezia. Neppure un nuovo incontro con l'abate Guerra e la promessa di questi di trarla fuori dai guai, riusciranno a farla pensare in positivo al futuro prossimo della sua vita: "Ma ciò che una volta mi avrebbe resa felice, non riuscì a scaldarmi il cuore. Capii che anche io ero morta per sempre". 
Di qui in avanti le cose cominceranno a precipitare. Le troppe falle nella gestione della congiura contro il padre, i troppi oggetti suoi trovati addosso ai inservienti che l'avevano aiutata, le si ritorceranno contro e aggraveranno via via la sua situazione. Con le confessioni infine estorte a tutti gli altri con la tortura più crudele, compreso quel povero fratello Giacomo ridotto a pelle e ossa, le faranno prendere coscienza che la sua fine è ormai imminente "Ero sola, completamente sola! Avevo perduto tutti, per un verso o per un altro! Chi era morto, chi mi aveva abbandonata, chi mi aveva tradita! Avrei fatto vedere loro come si doveva lottare, si poteva ancora negare. Resistere". 
Qui Beatrice commette l'ultimo, fatale errore nella conduzione della sua difesa: quello di negare di avere mai ricevuto violenza e strupo dal genitore, sperando così di allontanare da sè la ragione che l'avrebbe portata a vendicarsi e uccidere il Conte. Non si rendeva conto, la poveretta, che ormai era evidente a tutti la sua, e quella degli altri complici, responsabilità nell'assassinio del genitore. Che l'unica vera attenuante di fronte alla giustizia papalina poteva eventualmente consistere nell'assecondare ciò che pure una parte dei testimoni, a cominciare dalle donne di servizio, andavano dicendo ai giudici: vale a dire proprio le ripetute e brutali sevizie e soprusi patiti da lei e dagli altri da una persona malvagia, viziata e che aveva perso del tutto il diritto di chiamarsi padre. 
Siamo ad agosto del 1599, quasi un anno dal quel 10 settembre dell'anno precedente in cui è avvenuto il complotto. Il Papa Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, si decide ad emettere un motu proprio il quale, col titolo beffardo di Quemododum paterna clementia permetteva che si usasse la tortura anche verso una di famiglia nobile quale era Beatrice Cenci. 
Di fronte agli aguzzini che le legano le mani dietro la schiena e la issano in aria, Beatrice urla di non infierire e confessa tutto, comprese le terribili violenze subite dal padre. Sperando così di ottenere quella clemenza di cui ha bisogno. 
Ma ormai è tardi, gli orientamenti e gli interessi del Papa vanno tutti in una direzione. Sono molti a pensare che pesa tanto, nella decisione papale, la confisca dei notevoli beni dei Cenci e l'accaparramento, all'asta, da parte di un parente del papa medesimo. È sconvolgente leggere la sentenza che Clemente fa scrivere ai suoi relativa soprattutto a lei e a suo fratello Giacomo, con quell'orrenda indicazione di strappare le carni pezzo a pezzo al povero, quasi incolpevole, giovane e fino a lasciare i pezzi appesi alle corde della tortura nella piazza, nella quale piazza viene detto di mozzare la testa di Beatrice e di farla rotolare fuori dai ceppi. 
Tutta questa parte, scritta con levità e accoramento da parte di Nicoletta, è accompagnata dalla grandissima partecipazione della folla, divisa tra un profondo senso morboso della vicenda e una grande pena per l'ingiustizia perpetuata verso quei due giovani. 
"Ci furono tredici morti quel giorno, schiacciati nella calca o caduti dai parapetti.Il tavolato di una bottega crollò per il peso e in quattro ne morirono, altri annegati nel Tevere, altri ancora per insolazione, e più di seicento rimasero feriti. Qualcuno uscì di senno per aver assistito allo spettacolo". 
Era l'11 settembre del 1599, a ridosso del Giubileo del 1600. Di lì a poco, il 17 Febbraio, in Campo dei Fiori si rinnova un'altra, grave ingiustizia papale: Giordano Bruno dato al rogo in pieno Anno Santo. Beatrice fu sepolta, come da suo desiderio, in San Pietro in Montorio, dove tuttavia non troverà pace neppure lì quando, in pieno periodo napoleonico, un manipolo di soldati francesi, alla ricerca del piombo delle sepolture, aprì anche la sua tomba e uno di essi "prese la mia testa... facendola ribalzare da una mano all'altra come una palla". 
Nicoletta ci lascia qui, con tanta, rinnovata, rabbia per questi veri e propri assassini di Stato. Con l'angoscia che ci prende ogni giorno di fronte alla barbara cultura dei sempre più frequenti femminicidi. 
La lettura di questa bellissima opera, che invito tutti a godersi, ci spinge a fare del dolore di Beatrice Cenci un'arma in più per la instancabile battaglia per migliorare il mondo che frequentiamo.

Renato Campinoti



Un "femminicidio di stato" che ci interpella ancora oggi

19 ottobre 2024

Massimo Acciai Baggiani: Oltre le bianche distese del tempo.

 Un fantasy che ci costringe a riflettere sul futuro di "un uomo comune"

Non è facile classificare questo libro di Massimo, uno dei più intriganti tra i molti che ormai riempiono il curriculum del "narratore di Rifredi". Forse la definizione più adatta è quella di "Odissea", che tuttavia non si svolge per mare come quella originale del padre di tutti i narratori, bensì nel tempo e nelle trasformazioni di un mondo conosciuto e non più riconoscibile. "Un nuovo medioevo aveva avvolto il paese, un black out davvero insolito".

È ovvio che a fronte di questa novità (e di tante altre che il lettore incontrerà in questo insolito viaggio) il narratore avverta "la mancanza di qualcosa: di una spiegazione".

Si parte così, con l'io narrante, per un viaggio alla ricerca di quella ragione dei cambiamenti che incontra nel paesaggio urbano, che lo costringerà, volta a volta, a provarsi a dare una risposta. La prima, quella che sembra reggere alla prova dei fatti, la enuncia così: "O il progresso si era fermato oppure la spiegazione era davvero più semplice: mi trovavo nel presente, ma un presente 'alternativo' ". 

Va detto che il personaggio di cui Massimo ci parla è una persona in là con gli anni e, per un lettore arguto, questo fatto non dovrebbe essere indifferente! Proseguendo nel racconto siamo trascinati in molte, nuove avventure che da Firenze ci porteranno nel suo amato Casentino, in quella località, Corezzo, dove l'autore ha trascorso molte delle sue vacanze estive. 

Va detto che il narratore riesce a inframezzare le vicende che, appunto, ci racconta, con momenti di riflessione sulla vita e sulle sue aspettative: "Io l'età dell'oro me la immagino diversa sia dall'idillio campestre che dal paradiso consumistico dell'opulenta civiltà dell'usa e getta". Al lettore l'onere di scoprire ciò che l'autore immagina a questo proposito dell'età dell'oro. 

Sempre in tema di riflessione filosofica, il nostro non manca, mentre si scopre nel futuro, di riflettere anche sul passato, con lo scetticismo che lo contraddistingue in tutto il riomanzo: "Tale è il gap culturale e mentale che ci divide dai nostri antenati che non possiamo sperare di comprendere davvero il passato, di dialogare con esso neppure se esistesse una macchina del tempo". E qui il lettore troverà una specie di racconto nel racconto dove l'autore disvela non poche delle sue sensibilità! 

Un altro aspetto da sottolineare con piacere è una sorta di dialogo che si sviluppa lungo tutto il racconto con gli autori preferiti dall'autore. In uno dei frequenti intermezzi ci confesserà quali sono stati alcuni dei suoi libri preferiti. "D'altra parte, non sono uno che rilegge i libri, mi è capitato fino ra solo in cinque casi". Nella lista compaiono classici come "I promessi sposi del Manzoni" e quelli che lo stanno diventando come "Le città invisibili" di Calvino. 

Sono tantti gli autori di romanzi e i poeti che Massimo cita che non mi soffermo su nessuno per non rischiare assenze pesanti! In ogni caso la sua perlustrazione di tempi e modi in continua trasformazione va avanti, portandolo ad abbandonare volta a volta le varie ipotesi che cerca di costruire. 

Non che siano assenti, lungo lo sviluppo del racconto, altri personaggi. Basterà citare l'uomo che ogni giorno si affaccia alla finestra e incontra ogni volta novità nel paesaggio urbano e non solo. Altrettanto inquietante è la sorte di quegli abitanti che vivono nel più completo isolamento. Ma c'è un passaggio che non si può tacere di questa affascinante e inquietante odissea. Che è anche, secondo me, l'indizio più evidente della meta cui lo scrittore vuole condurre il suo personaggio: "mi sembrava di essere in viaggio da una vita in quel deserto maledetto. È la monotonia la Grande Nemica, pensavo, ciò che temiamo davvero. L'inferno dantesco non sarebbe tale se i dannati non patissero sempre la stessa pena, che non aumenta nè diminuisce". 

Grande intuizione questa di Massimo, che ci conduce all'epilogo del suo bel romanzo. Non senza averci regalato un'ulteriore risposta a quell'interrogativo da cui siamo partiti: "Quindi, se ho capito bene, dopo la morte si continua a vivere nella memoria dei vivi, così come ci ricordano, con quell'età, quel viso, quel carattere che avevamo". Che è poi ciò di cui è convinto il sottoscritto. 

Forse è anche per questo che mi ha affascinato così tanto questo romanzo che ha partecipato al concorso letterario indetto dalla casa editrice, che lo ha pure pubblicato. "Vincendo il concorso su una nutrita schiera di opere inviate e iscritte" e, sottolinea ancora l'editore "lo scrittore ti prende per mano e, pagina dopo pagina, svela ogni mistero con sapienza e abilità". 

Allora non resta altro a voi lettori che correre a leggerlo e scoprire, chi non lo avesse ancora fatto, un narratore di razza.

Renato Campinoti

08 ottobre 2024

Saimo Tedino e Andrea Zavagli, Antologia: Un anno di carta

"Alla fine, ciò che conta non sono gli anni della tua vita, ma la vita che metti in quegli anni (Abraham Lincoln)"

Non è facile dare un senso ad una antologia che permette agli autori di sbizzarrirsi come vogliono, unico vincolo un riferimento ad un mese di un anno qualsiasi. Forse davvero la frase che li riassume meglio di ogni altra è quella appostata a premessa di tutti i racconti, quella di Abraham Lincoln, per capirci, e che ho ritenuto di dover mettere anche all'inizio di questa di specie di recensione. 
Eppure questa antologia un suo fascino ce l'ha davvero! Da dove mi viene questa convinzione? Anzitutto da ciò che potrebbe a prima vista sembrare un suo limite, cioè la grande varietà e ricchezza di spunti e di svolgimenti dei racconti che essa ci presenta. Che è poi come dire la ricchezza e la varietà di sensibilità e di voglia di raccontarci qualcosa da parte di tutti gli autori. 
Autori (ecco un'altra ragione della mia meraviglia!) tutti dotati di forti sensibilità e motivazioni al racconto e al confronto col lettore. 
Si va così dalla "ragazza di Ipanema" di Fausto Meoli che vuole trasmetterci il nuovo equilibrio del personaggio trovato tra la statua di Cristo che incombe su Rio de Janeiro, al silenzio e al paesaggio agreste di Morro de Pilar. Soprattutto con la presenza di Paula, che "di faccia non è bella anzi la definirei piuttosto brutta, ma ha degli occhi profondi e bellissimi. Peccato che quello destro sia completamente non vedente". E sarà da questa donna che, lui finora legato all'amico cui sta scrivendo, riuscirà a "lasciarsi trascinare... verso qualcosa di sconosciuto". Un racconto molto intimo, anche ironico e molto ben scritto. 
Si gira pagina e si trova il racconto di Cristina Gatti, di altro genere, sempre all'insegna di una particolare intimità, quella di una donna preda di una "insaziabile curiosità" che finirà reclusa per una estrema follia, per credere ad un mondo "quando la luna non c'era".
Si volta pagina e si incontra il primo dei quattro racconti, che pur su periodi molto diversi, ancorano a momenti storici la loro voglia di raccontare. Si comincia con Gabbriella Becherelli che ci regala un cameo della vita di Sandro Botticelli, collegandola al momento dell'edificazione della Chiesa di Santo Spirito su disegno del Brunelleschi e lui, giovanissimo, rimase affascinato da "quella facciata in lavorazione, alquanto strana, che gli trasmise un senso di grande armonia". Fu allora, ci racconta Gabbriella, che il giovane Botticelli "scoprì che poteva rappresentare le cose che vedeva o poteva disegnare ciò che immaginava"
Diverso è il tempo e la storia che ci racconta Giovanna Checchi, che ci porta al 2 giugno del 1946 che "fu una giornata importante per l'Italia intera". Molto belle le pagine del racconto di Giovanna dove due coppie di nobili vivono in maniera opposta quella data, così come opposta è la ragione del loro stare insieme. 
Ed ecco che Caterina Perrone ci porta qualche anno indietro, al giugno del 1940, quando l'Italia, di lì ad una paio d'anni, sarà trascinata nella sciagurata guerra in alleanza con la Germania nazista, fino ai disastri che conosciamo. Lei ci parla di un amore fra Antonio e Adele, così innamorati prima che lui parta per la guerra, destinazione Grecia, da unirsi in matrimonio e concepire un figlio. Antonio sarà un ufficiale scrupoloso, che riuscirà a farsi voler bene anche dai greci che pure lo vedono come invasore. La storia, che alla fine Caterina ci confessa essere vera, non è priva di momenti crudeli e di rischi mortali. Basti pensare al puro caso che impedisce ad Antonio di recarsi a Cefalonia, dove i nostri soldati furono trucidati dai tedeschi. Molto bello anche questo racconto, dal quale mi piace estrarre il colloquio di Antonio con il partigiano greco che gli confessa "io sto con gli anglo americani,... noi partigiani greci. Questa zona è sotto il mio controllo. Che cosa pensa facesse quel vecchietto sull'asino tutti i giorni e tutte le sere? Controllava che non le facessero del male". Da leggere d'un fiato! 
Il quarto di questa serie ce lo porge Antonella Cipriani, che si avvicina ai nostri giorni per parlarci della sua esperienza, da bambina, quando il 2 agosto del 1980 si consumò quella terribile strage di stampo neofascista alla stazione di Bologna che fece 85 persone morte e oltre 200 ferite. Ben scritto, da notare lo scarto tra la levità dei ricordi di lei bambina al mare dalla zia nella villetta di Torre del Lago Puccini, insieme alla cuginetta e l'irrompere di questa tragedia nella vita di tutti, che non solo rovinerà quei giorni di gioia alla bambina di 10 anni, ma rimarrà in lei, insieme all'attentato di via dei Georgofili a Firenze, come una macchia indelebile nella sua sensibilità di scrittrice.
Andando avanti si incontrano due scrittrici da me altrettanto apprezzate e entrambe, a modo loro, ci riportano alle vicende intime delle persone. Più forte la storia di Marisol che Sylvia Zanotto ci racconta, di questa bimba concepita, come scopriremo da una bravissima pianista insieme a due bellissimi uomini gay che la "utilizzano" per appagare il loro desiderio genitoriale. Dalla depressione alla felicità e viceversa, la competenza di Sylvia ci porta dentro un mondo musicale e un'altalena di sentimenti che meritano davvero di essere letti e gustati. 
Con uno spirito più leggero e tuttavia non meno sagace e divertente, ci trascina nella storia di Brigida, la nostra bravissima Nicoletta Manetti. Rimasta vedova già matura tuttavia troppo giovane, "era ancora una bella donna e quando si guardava (lo faceva spesso...) si compiaceva della pelle luminosa, della folta treccia arrotolata sulla nuca e delle forme procaci". Messe così le cose, con una ironia di cui tutto il testo trasuda, non ci resta che leggere come e con chi la bella vedova deciderà di accasarsi nuovamente, continuando a fare assaggiare a tutti quel caffè che lo stesso barista dove lavorava suo marito riconoscerà "E' davvero eccellente...". Naturalmente il finale è a sorpresa e consiglio a tutti di andarselo a leggere!
Una ricerca più interiore è presente nel racconto di Federico Fabbri, che ci segnala la difficoltà ad imparare ad amare davvero da parte del suo personaggio, che neppure riesce a smettere di fumare. Così è costretto a riconoscere (grande merito, secondo me!) che "La forza delle donne sta anche in questo, nello scegliere la via più impervia che conduce all'amore a quel sentimento sopravvalutato che mi sforzo di ignorare perchè so di non saperlo gestire".
In forma di racconto giallo (finalmente!) è quello che ci propone Marco Tempestini. Inventandosi un libro di uno scrittore che non esiste, (Tre delitti sarebbe il titolo) induce il suo personaggio a ricopiarne le vicende delittuose che lo porteranno tuttavia a compiere un errore fatale. Non a caso il titolo "Nessuno è perfetto" induce verso un esito che ci può sembrare scontato. Il finale, tuttavia, ci riserva la sorpresa che ogni buon giallista, come dimostra di essere Marco, è chiamato a regalare ai propri lettori.
Resta da dire dei racconti dei due curatori dell'antologia. 
Inizio con Andrea Zavagli e il suo Oktoberfest, dove si inventa un divertentissimo colloquio tra l'autore, che vuol portare all'Oktoberfest il suo personaggio che, come scopriremo, è stato un ispettore di polizia in due romanzi gialli. Il rifiuto del personaggio di seguire la volontà dell'autore, apre uno scenario, attraverso un fitto colloquio, che avrà un epilogo non troppo esaltante per l'autore stesso. Ci vuole fantasia, ma a Andrea non manca davvero, per inventarsi una storia del genere. Che è poi il colloquio interiore che lo scrittore di romanzi seriali è costretto prima o poi a imbastire con se stesso, come ci insegnano anche i più "grandi", spesso loro stessi indecisi se far scomparire, sopravvivere, cambiare vita ai loro, talvolta anche troppo a lungo sfruttati personaggi. 
Da leggere con animo leggero e meravigliato! In ultimo, ma non per importanza come dicono quelli bravi, da leggere con altrettanta leggerezza il racconto di Saimo Tedino, che col suo Natale Dasolo (già il nome è un programma!) immagina questo ragazzino dimenticato(?) in un centro commerciale dai genitori e che finirà, un pò come il Tom Hanks del film Terminal, per rimanere così a lungo e così benvoluto da tutti, dentro i negozi e le boutiques del centro commerciale medesimo fino alla sua maggiore età. Gustosi i riferimenti ai prodotti e alle politiche commerciali di stampo consumistico che permeano tutto il divertente racconto di Saimo. Poi, anche in questa occasione, sarà l'amore che darà una svolta decisa alla vicenda. Naturalmente per il lettore che avrà voglia di arrivare fino all'ultima pagina dell'antologia, quella appunto, che coincide con la fine di questo ultimo, ben fatto, racconto.
Che dire? Bella l'idea, ben curata, mi pare la gestione della composizione dell'antologia. Buona la scelta degli autori, quasi tutti, mi pare, facenti parte del Gruppo Scrittori Firenze. Un bel contributo alla diffusione della scrittura e, si spera, della lettura in un Paese che ne ha un gran bisogno. Facendoci così sperare che i due curatori si propongano di ripetere, su temi magari più stringenti (per gli autori), la bella esperienza cui hanno dato vita. In quel caso, modestia a parte, prenoto un posto nell'antologia, non fosse altro per abbassare un pochino il livello medio della qualità dell'antologia.

Renato Campinoti











05 ottobre 2024

Sacha Naspini: Bocca di Strega

 Quando i tombaroli della val di Cornia arricchirono i musei di mezzo mondo

"Nelle sere d'estate i tombaroli di Maremma fanno banda nelle cantine, aprono le carte dei giornali svelando reperti meravigliosi... raccontano le avventure che hanno affrontato... Ce n'è una in particolare. Parla di un portento che in un certo periodo cambiò la vita di molti in Val di Cornia: tal Guido Sacchetti, ma per tutti era Bardo...". Posta al termine di questo nuovo, meraviglioso romanzo di Sacha Naspini, questa frase svela l'intento reale dello scrittore che, da par suo, intreccia ancora una volta la sua vena di narratore con le vicende della sua amata terra: la Maremma, appunto.
Era difficile per lui, intenzionato a trasformare in romanzo la vita e le vicende dei suoi concittadini (basti pensare a Villa del seminario, dedicato alle amare vicende della reclusione degli ebrei di maremma a Roccatederighi!) non rispondere al richiamo dei "Molti reperti etruschi che oggi sono esposti nelle sale più prestigiose del globo". 
Per raccontarci questa storia Naspini ci riporta indietro nel tempo, prima della legge sulla salvaguardia dei beni culturali e del nucleo dei Carabinieri (TPC) nato da questa. Avveniva così che "I carabinieri erano entrati in certe regge da papponi nate dalle baracche dei conigli: pezzi ovunque, usati come soprammobili. Tizi che a fatica sapevano parlare in italiano arrivavano in Mercedes da un giorno all'altro...". 
Dopo questa partenza lo scrittore maremmano comincia a delineare i personaggi intorno a cui ruoterà la storia che vuole raccontarci. Si viene così a sapere di Leagro, il solitario, che intreccerà un rapporto con Silvana, una specie di "bocca di rosa" che, come ci racconta Naspini, "non aveva fatto altro che il suo lavoro: prendere le solitudini e farne un'altra cosa". 
Naturalmente al centro del racconto c'è lui, Guido Sacchetti detto il Bardo, che è il primo a capire di quale tesoro si celi sotto la terra della Val di Cornia, di Buca delle Fate, di Populonia e di tutte quelle terre dove gli Etruschi avevano portato ai massimi livelli la loro capacità di produrre materiali e, soprattutto, pezzi d'arte in forma di vasellame, monili femminili e maschili, piccole sculture in tutti i materiali conosciuti, compreso l'argento e l'oro. 
Si trattava di fare una squadra di scavatori, i famosi "tombaroli" e mettersi in contatto con i commercianti giusti, quelli che sapevano rivendere ai collezionisti privati e pubblici a prezzi adeguati i pezzi estratti dalle tombe. Soprattutto da quelle dei personaggi dell'epoca. 
È appunto quello che sa fare il Bardo. Ecco allora tutta la galleria dei personaggi che ruota intorno a questo vero e proprio capo, come i pianeti intorno al sole. 
C'è Renata, la mamma single che vede il figlio studiare e farsi una posizione perchè "identico a Bardo". C'è una certa Elisa Querci che invece Bardo la sposerà e ne sarà perdutamente innamorato, nonostante fosse, con le sue sparate contro i tombaroli, "per niente adatta a fare la moglie di un tizio del genere". 
Proseguendo c'è il Ciocio, Simone all'anagrafe. "Una volta Bardo aveva detto a Simone: 'Non è solo andare a caccia di tesori'. Insomma, si parlava di una specie di missione che riguardava il territorio, la vita di tante famiglie". 
Ecco che anche a lui viene trovato un posto al porto per uno stipendio fisso e per "fare il guardiano di notte... Di tanto in tanto riceveva la chiamata... i riflettori accendevano il molo 4 a giorno e gli operai di terra cominciavano a scaricare... Simone si appartava con tale marinaio. Lui dava il pacco, l'altro gli metteva in mano la busta con i soldi. Un paio di giorni dopo il bastimento riprendeva il largo". 
E ce ne sono tanti di personaggi insospettabili che partecipano a questo traffico che li arricchisce grazie alla organizzazione commerciale del Bardo: "Il pesciaio di via Bologna metteva in vendita una spigola del giorno farcita di un bronzetto... Oppure Bombolino, il mercataro... ogni giorno montava la bancarella delle ceramiche in un posto diverso... La gente usava Guido Sacchetti - Guido Sacchetti usava la gente". 
Poi accade che a tirare le fila toccherà al figlio Giovanni, detto Veleno. Sarà all'altezza del padre o sarà lui a scatenare quella guerra tra bande, i viterbesi contro i napoletani, tutti contro la banda degli uomini di Sacchetti?... Si, perché ad un certo punto Naspini fa partire un vero e proprio romanzo giallo che troverà nella "bocca di strega" un passaggio determinante. "E poi capita che le storielle di paese diventino un'altra cosa. Nell'ambiente dei tombaroli di Maremma dire bocca di strega equivale a dire questo: una trappola. Il tranello escogitato da qualcuno per smascherare chi ha cercato di fare il furbo. O che fa il doppio gioco". 
Prima di lasciare al lettore il gusto di entrare nell'intrigo che Sacha Naspini gli costruisce come uno dei maggiori esperti del genere noir, non possiamo non citare un personaggio che diventerà anch'esso essenziale nella trama finale: Il Marchese, Raffaello Dolfino della Quaglia Biganò. A lui, che aveva perso tutto al gioco, Bardo dirà "Vivrai nella bambagia, solo che non lo saprà nessuno. E poi cerchi l'avventura... Io te la regalo". 
Anche di questa vera e propria storia nella storia, tocca al lettore, ormai sicuramente incuriosito, andare a scoprire di cosa è fatta. E ne troverà di materia... Ma ora è giusto finire qui le lodi, del tutto meritate, al lavoro di Naspini. Con la speranza che non ci faccia aspettare troppo per gustare una sua nuova opera, sempre nei pressi dell'amata Maremma.

Renato Campinoti