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03 gennaio 2025

Gianna Manzini: Ritratto in piedi

La "limpidezza morale e lo splendore della fede" di Giuseppe Manzini

Conoscevo poco di questa autrice prima di leggere questo romanzo (e con l'aiuto dell'essenziale biografia che ne fa Nadia Verdile in un agile e utile libretto), da cui emergono non pochi caratteri sia della scrittrice (è un pò anche un'autobiografia!), che, soprattutto, del padre Giuseppe Manzini, uno dei pochi, autentici portatori delle idee di fratellanza e di amore per il prossimo proprie degli anarchici di quel periodo. 
Dico subito che non sono un grande estimatore della prosa di autori e autrici come Gianna Manzini (il cosiddetto "modernismo sperimentale") che punta a ricercare uno stile e una prosa complessa e frastagliata, più attenta ad una sorta di sperimentalismo linguistico che alla chiarezza del racconto. 
Fortunatamente, dal mio punto di vista, questa "scuola" di scrittura sembra si sia dissolta insieme ai pochi autori che l'hanno praticata. Detto ciò va tuttavia riconosciuto un grande merito e un grande difetto a questo libro della Manzini. 
Il merito è sicuramente quello di averci insegnato a trattare un genere, la biografia, in una maniera che va oltre la raccolta e la spiegazione degli accadimenti della persona di cui si parla e di avere la capacità di intrecciare le vicende con i sentimenti dell'autrice medesima e con gli stati d'animo che, pure a distanza di anni, riescono ancora a riemergere. Di trasformare, insomma, un racconto biografico in un vero e proprio romanzo che, pur privo degli intrecci narrativi soliti, li prende a prestito dai "quadri" degli incontri e delle conversazioni ricostruite dall'autrice. 
Bellissima e rivelatrice in questo senso la scena, posta a premessa del racconto, dell'immagine del cavallo con carrzza che, di fronte al ponte di Santa Trinita a Firenze, rifiuta di traversarsarlo e si imbizzarrisce, un pò come fa l'autrice che, di fronte al bisogno di tornare, ormai un pezzo in là nella vita, a confrontarsi con una figura moralmente gigantesca come quella del padre, ci rappresenta tutta la sua intima difficoltà. 
Su questa figura del cavallo l'autrice tornerà alla fine della sua fatica letteraria e lo faremo anche noi. 
Per rimanere, per ora, all'aspetto positivo di questa impegnativa e apprezzata opera, vi è sicuramente da mettere in rilievo la capacità dell'autrice di esaltare la figura e le doti di estrema coerenza dei propri valori da parte del padre, ("Lui, la sua limpidezza morale, lo splendore della sua fede") che lo portano a rinunciare agli agi di una famiglia benestante e finire, talvolta, in estrema povertà. Come lo portano a rinunciare allo stesso rapporto con l'amata moglie, la madre dell'autrice, pur di rimanere coerente a se stesso e a non rinunciare a stare dalla parte dei lavoratori nella ditta del fratello di lei, fino ad organizzare uno sciopero contro ,la proprietà! 
Schietto e deciso il Manzini padre su questo: "Non basta averlo un ideale; bisogna esserne degni; capaci di sacrificargli qualsiasi cosa, a cominciare da se stessi...anche la famiglia" Vi è, in tutta la fase dei rapporti fra padre e figlia (con quanta tenerezza e al tempo stesso coerenza di idee lui gestisce questi incontri!) il rapporto di amore tra il padre e la mamma dell'autrice che, pur impossibile a ricongiungersi, mette in rilievo momenti di grande passione e amore, tanto più forte quanto impossibilitato a realizzarsi di nuovo. In questo contesto emerge sicuramente una prima contraddizione tra il fascino e l'ammirazione che desta nella Manzini bambina il carisma e la coerenza di questo padre (particolarmente bello, in questo senso tutto il capitolo dedicato al pranzo con la presenza dello zio proprietario dello stabilimento dove il padre lavorava e aveva organizzato lo sciopero, le continue stoccate contro Manzini padre da padre di questo "padrone" e le sofferenze della Manzini bambina che, non potendo replicare, si applica a seguire le vicessitudini di una formica sul muro della cucina!) e le conclusioni, in tutt'altra direzione, da parte della Gianna Manzini adulta.
Qui emerge quello che, secondo me, è il difetto cui ho accennato di questo pur pregevole lavoro dell'autrice. Alla quale va dato atto di non essersi sottratta alla messa in evidenza, anche sulla base del racconto da parte di antichi amici del padre, dalla ricerca delle responsabilità politiche dei gruppi fascisti nel provocare il fatale malore che porterà, ad appena sessanta anni, nel 1925, alla prematura morte per infarto da parte di Giuseppe Manzini, mentre si trovava confinato a Cutigliano da parte del regime fascista, per responsabilità diretta del suo vecchio amico di ideali socialisti, il capo del fascismo Benito Mussolini. 
Altre volte l'autrice fa riferimento alla persecuzione dei suoi avversari da parte del regime fascista. Tutto ciò, ecco il difetto, resta troppo sullo sfondo, senza un minimo di collegamento con ciò che proprio in quel periodo che precede il confino e poi la morte del padre, avviene con le numerosissime violenze, con le distruzioni dei luoghi delle organizzazioni sociali, particolarmente virulente nella parte di Toscana di cui ci parla l'autrice e, ancora pochi mesi prima della morte di Manzini e del suo inseguimento da parte di una squadraccia fascista, il brutale assassinio di Giacomo Matteotti che scosse nel profondo la coscienza del Paese. 
Forse, portando a termine questo impegnativo e indubbiamente interessante esperimento anche letterario, nel periodo i cui, alla fine degli anni sessanta, la coscienza del Paese è di nuovo alle prese con una profonda richiesta di innovazioni sociali e culturali, non avrebbe guastato un riferimento alle qualità morali e ideali di Giuseppe Manzini.
Con coerenza, debbo dire, Gianna Manzini ritorna infine sull'immagine di quel cavallo. "Il cavallo del ponte Santa Trinita, la prima volta... si fermò e non ci fu verso di farlo proseguire. Nè quella volta, nè, in seguito, moltissime altre volte... Finché si buttò dalla spalletta, con la carrozza. Impazzito, dissero. Cosciente, dico. Avvertito. Illuminato. Consapevole". 
E l'autrice ci confessa che, per quanto sia riucita a portare a termine il racconto, comprese le circostanze della morte del padre, registra così la fine della "nostra intesa straordinaria, ferma al punto che inizia il suo calvario e la mia spaventosa assenza". 
Anche la vita di Gianna Manzini, insomma, fu a suo modo straordinaria. Basterebbe, per rimanere nella letteratura, ricordare che, dopo i suoi rapporti a Firenze con "Solaria" e con gli ambienti delle Giubbe Rosse di Montale, fu proprio in casa sua e di suo marito Enrico Falqui, a Roma, "che nacque il Premio Strega, che venne annunciato il 17 Febbraio 1947" (vedi Nadia Verdile: Gianna Manzini). Ma i compromessi e le incoerenze cui dovette abituarsi per sopravvivere, per collaborare con la TV per oltre venti anni, per disporre delle necessarie risorse per i suoi viaggi nel mondo, la portarono certamente lontana dagli ideali e dalle rigide coerenze del padre di cui ci parla in questo che fu anche riconosciuto come il suo capolavoro letterario.

Renato Campinoti

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