Prendendo spunto da un tragico fatto di cronaca avvenuto nelle vicinanze di Penne, il borgo in provincia di Pescara dove vive e lavora l'autrice, Donatella di Pietrantonio trasforma il tutto in un inquietante e bellissimo racconto sulla difficoltà dei rapporti tra figli e genitori nel tempo attuale.
Sono molti i "livelli" del racconto che l'autrice de L'Arminuta ci propone in questa occasione. Anzitutto colpisce la bravura di disegnare un contesto ambientale e umano che rappresenta, senza dubbio, la premessa e la "piattaforma" da cui prende forza lo svolgimento dei fatti che ci vengono raccontati. Bastano pochi spunti per introdurci nel mondo di appena un paio di generazioni precedenti.
Chi parla è la madre della giovane cui fa riferimento il titolo del romanzo: "mia madre si è dovuta ammalare per riposarsi. Prima il suo sposo non le ha dato tregua, la voleva uomo in campagna e femmina in casa".
Più avanti nel racconto troviamo un paio di frasi sul rapporto con quella natura impervia di cui l'autrice ci parla, che vanno contro i tanti luoghi comuni sulla bellezza degli ambienti agresti. "Lei non condivideva tutta la retorica intorno alla montagna, i boschi erano suggestivi, ma anche pieni di ombre...' la natura è bella per i ricchi, non se devi lavorare come uno schiavo'... nessuno aveva scelto di vivere nella valle. Erano rimasti nell'unico luogo possibile, dov'erano nati".
Un altro aspetto su cui è costruito il valore anche umano di questo racconto è sicuramente rappresentato dalla forte caratterizzazione dei personaggi che lo popolano e dei rapporti forti tra di loro. Emblematico per tutti il rapporto tra il padre di Lucia, la voce narrante, nonno di Amanda e Osvaldo, il padre dell'amica più cara della giovane, Doralice.
Nonostante la diversità di caratteri fra i due nonni, emerge tuttavia una complicità e un'amicizia che non hanno riscontro con altre figure del libro. "Questa è la più grossa mattità che ha fatto Osvaldo", ha ammesso (è il babbo di Lucia che parla). "Ma tu l'hai sempre coperto" gli ho detto. "Per un amico fai quello, e anche peggio. Certe volte fai cose che non faresti per un figlio"
Naturalmente accanto a queste figure ce ne sono altre che difficilmente si fanno dimenticare. Su tutte La Sceriffa, moglie di Osvaldo, che riscatta certamente le tante angherie subite dalle donne della sua generazione riscontrate anche in questo libro.
Resta da dire della descrizione della vita dei pastori e del loro rapporto con gli animali, fino al pianto del più rude di loro, che si scioglie solo alla morte del suo cavallo, unica presenza reale nella sua vita solitaria.
Ma la parte centrale, il cuore di questo bellissimo libro è rappresentato sicuramente dal rapporto tra madre e figlia, visto anche come emblema di una diffusa difficoltà tra genitori e figli nel tempo della crisi della famiglia e della ricerca di una diversa vita da parte dei figli. "Milano mi ha restituito una figlia spenta", riflette Lucia quando Amanda ritorna a casa dopo poco tempo che se ne è andata in quella città per studiare.
Inizia così un lungo percorso di riflessione della madre sulle ragioni di quella perdita di interessi da parte della figlia. Così si troverà a riflettere, una volta scoperta la vicenda di borseggio cui Amanda era stata vittima: "Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa". E ancora: "È il destino delle madri, non poterli più proteggere ad un certo punto".
Poi, quando le sembra ci siano novità, Lucia constata amaramente: "Manda segnali di vita, una vita segreta che scorre dentro di lei".
Ma la difficoltà di afferrare le vere ragioni del distacco tra madre e figlia la portano a riflettere con amarezza: "Come sono lontani a volte i pensieri dei figli da ciò che crediamo. Quella falsa sintonia con loro è solo un ricordo di quando erano bambini". Senza entrare ovviamente, nei dettagli, mi pare infine emblematica la frase che Lucia rivolge ad un amica: "Giorni fa ho confidato a Rubina che oggi forse mi mancherebbe il coraggio di avere figli".
Naturalmente la lettura del romanzo è molto più complessa. Ci sarebbe da dire il peso della tragedia di ciò che avvenne quasi trent'anni prima in quel campeggio costruito vicino al Dente del Lupo di cui, ovviamente, tralascio di parlare per non togliere niente alla curiosità del lettore.
Alla fine della lettura sarebbe davvero difficile dire se serve più a scoraggiare o a favorire la comprensione dei nostri figli, in questa difficile epoca di passaggio, da parte di noi genitori. Ma è proprio qui, in questa necessità di lettura e di interpretazione da parte di ciascuno, la forza e la grande qualità di questo romanzo che merita per intero il riconoscimento del Premio Strega che ha ricevuto.
Renato Campinoti
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