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01 settembre 2024

Agota Kristof: Trilogia della città di carta

Guerra, nazismo e totalitarismo: i mali assoluti sempre presenti

Mai come in un momento come questo, quando tutti parlano di rischio di una terza guerra mondiale (secondo Papa Francesco, siamo già in una "guerra mondiale a pezzi"), mentre quasi metà della popolazione mondiale è governata da regimi totalitari (Cina, Russia, Paesi del golfo ecc.), è utile tornare a parlare di un libro come questo della Kristof.

Scritto dalla dissidente ungherese alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo circa un ventennio dal suo abbandono del Paese natale, torna oggi di una tremenda attualità. Sia chiaro! La Kristof è prima di tutto una grande scrittrice, capace di impostare, come in questo caso, sull'abbandono forzato dalla guerra (eccola già in prima fila, questa tremenda tragedia del genere umano!) i suoi due figli gemelli, lasciati in custodia ad una nonna dai tratti inquiettanti, un grande romanzo che attraversa mezzo secolo di storia dell'europa dell'est. 
Si tratta, ovviamente, della sua povera patria, l'Ungheria, mai resa esplicita in tutto il romanzo, ma che traspare nettamente da molte parti del racconto. E c'è in questo voluto anonimato geografico da parte della scrittrice, una prima utile scelta, che finisce per identificare nel racconto di una realtà pervasa da un regime totalitario la totalità dei regimi costruiti dall'Unione Sovietica nel suo campo di influenza. 
La scrittrice divide in tre libri, apparentemente separati l'uno dall'altro, in realtà strettamente collegati l'uno all'altro, l'insieme del voluminoso racconto. 
Seguendone lo sviluppo, possiamo dire che il primo dei libri è pervaso soprattutto dalla tragedia della guerra quando, invaso il Paese dai nazisti, sarà l'esercito sovietico che si impegna per la sua liberazione. Ecco allora tutta la storia del rapporto tra i due gemelli abbandonati dalla mamma presso il piccolo paese della nonna, un tipino da tutti chiamato "la strega" per essere sospettata di aver avvelenato il marito e che usa sistemi sbrigativi per gestire i due ragazzini, di cui, come dice esplicitamente, avrebbe volentieri fatto a meno. 
Una prima cosa interessante da dire è che l'autrice non fa confluire tutto nella dimensione nazionalista. Rimane saldo in lei, che pure nel 1956 non esita ad abbandonare l'Ungheria, il concetto di una visione di classe della società. Bellissimo, a questo proposito, il brano ricavato da una presunta rappresentazione teatrale realizzata da i due gemelli: "Il ricco apre la porta, da un calcio al povero che cade disteso sul marciapiede. Il ricco richiude la porta, si siede di fronte a un piatto di minestra e dice, unendo le mani - Grazie, Signore Gesù, per tutta la tua bontà". 
Altrettanto interessanti gli espliciti accenni ad una organizzazione clandestina, di resistenza all'invasione straniera, incarnata, tra gli altri, dal calzolaio che, appena conosciuto, regalerà un paio di stivali ai gemelli, costretti finora a rimanere in casa mentre fuori c'è la neve, privi di calzature adeguate. 
Più avanti l'autrice parlerà delle aspettative degli abitanti e soprattutto di coloro che si stanno organizzando in forma di resistenza, che sperano che arrivino i soldati dell'esercito sovietico. "Li aspetteremo nella Piazza Grande con dei fiori". Evidenziando anche così quanto saranno grandi le disillusioni degli abitanti quando quei soldati arriveranno e si instaurerà un vero e proprio regime autoritario e liberticida. 
Su questa parte del libro c'è solo da mettere in evidenza il ruolo dei gemelli i quali, finché saranno uniti, dimostrano di saper affrontare le situazioni più complesse e difficili con acutezza e grande sprezzo del pericolo. Sarà tuttavia nel secondo libro, o seconda parte del libro, quando loro saranno costretti a separarsi, dopo la presa del potere da parte dei sovietici. 
Uno dei due riesce a passare la frontiera, lì vicino al paesino dove vivono e si riparlerà di lui solo nel terzo libro. In questa parte emerge con forza, talvolta in modo drammatico, la sofferenza del popolo sotto la vera e propria dittatura che è costretto a vivere. Bellissima la breve descrizione dell'incontro del gemello rimasto in patria, Lucas come si chiama d'ora in poi, nell'osteria che frequenta in una serata di pioggia: "Qui la gente beve, ma non parla. All'improvviso un uomo alto e forte, con una gamba amputata, si piazza al centro della sala e... intona un canto proibito". 
Lucas lo accompagna con l'armonica. Gli altri avventori vuotano rapidamente i loro bicchieri e, uno dopo l'altro, se ne vanno. Sul volto dell'uomo scorrono le lacrime ai due ultimi versi del canto: "Questo popolo ha già espiato, il passato e l'avvenire". 
In questa parte c'è anche l'incontro di Lucas con Peter, che incarna il rappresentante locale degli invasori e che contribuirà a tenerlo protetto da alcune sue intemperanze, spiegandogli anche cosa sta succedendo (Siamo probabilmente alla vigilia della rivolta del 1956): "Nel nostro Paese si prepara un'insurrezione. Una controrivoluzione. È cominciata con gli intellettuali che scrivevano cose che npn avrebbero dovuto scrivere. È continuata con gli studenti. Gli studenti sono sempre pronti a seminare il disordine". 
Poco prima la Kristof ci aveva fatto una descrizione, per il tramite di Victor (il libraio/cartolaio che ha ha fornito molte risme di carta, prima ai gemelli ora a Lucas, per permettere loro di scrivere questa sorta di diario incarnato dal libro stesso dell'autrice ungherese) della situazione dei libri dopo l'invasione dei "liberatori": "Victor alza le spalle - Cosa vuole? ... Qualche romanzo scritto, scritto in onore del regime. C'è da credere che nel nostro paese non ci siano più scrittori. Lucas dice: - Si, li conosco quei romanzi. Non valgono il peso della carta. Che fine hanno fatto i libri di una volta? - Vietati, spariti, ritirati dal commercio". 
Da segnalare, in questa parte, insieme a nuovi personaggi votati alla tristezza dell'ambiente, il ruolo svolto dal piccolo Mathias, il bambino deforme portato dalla giovane Yasmine, che finirà anch'essa per lasciare soli Lucas e il bambino. 
Si giunge infine al terzo capitolo del libro della Kristof. Dove, col ritorno dell'altro gemello, che avrà serie difficoltà a rintracciare il fratello, si comincia a respirare un'aria sempre più triste, dove i personaggi non riescono a togliersi di dosso l'atmosfera cupa imposta dall'ambiente costruito dal regime. È quello che emerge dal colloquio tra il gemello, rinchiuso in carcere per la scoperta di pagine che non avrebbe dovuto scrivere, e la padrona della libreria da cui ha acquistato la casa dove è andato ad abitare. "Quello che mi interessa sapere è se scrive delle cose vere o delle cose inventate'. le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, mi fa troppo male. La libraia dice: - Si, certe vite sono più trsiti del più triste dei libri. Dico - Proprio così Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita". 
 Sarà tra le ultime pagine di questo crudo ma interessantissimo libro che emerge la sostanza delle cose che la Kristof ha avuto la voglia e la forza di raccontarci. E lo fa dire a uno dei gemelli, dopo molti anni che si non separati, che immagina di parlare a suo fratello: "Gli dico che la vita è di una inutilità totale, è non senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione". 
Può sembrare certamente una visione troppo negativa della vita. Ma cosa ci direbbero, se potessero parlarci, quei poveri esseri umani costretti a vivere sotto i bombardamenti quotidiani o quelle masse di donne e bambini sfollati oggi giorno e ogni giorno chiamati a verificare chi è rimasto in vita della loro famiglia? E cosa ci direbbero quelle famiglie e quegli intellettuali costretti ogni giorno a mascherare il loro pensiero per non finire alla fine fatti fuori in una lontana prigione ai confini della loro stessa Patria? 
Dobbiamo molto a scrittrici come Agota Kristoff per non permetterci di far finta di dimenticarci in che mondo viviamo e che tutto questo ci chiama a non nascondere la testa sotto la sabbia, ma perlomeno, a mantenere desto, nelle forme possibili, il senso critico su ciò che ci circonda.

Renato Campinoti




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