L'affascinante e documentatissimo romanzo storico di Gabriele Antonacci va letto, anzitutto da noi fiorentini ma non solo, per tante ragioni. La prima è sicuramente quella di riportare alla luce l'imperatore Filippo l'Arabo. un personaggio, come già Settimio Severo prima di lui, ben lontano dagli schemi che, nel primo periodo della saga degli imperatori, aveva visto alternarsi i rappresentanti delle casate "nobili" della Roma imperiale.
Siamo nel 244, nel mezzo di un periodo in cui Roma comincia a vedere messa in discussione la sua capacità di tenuta dell'immenso impero che ha costruito dopo mille anni dalla sua fondazione.
Sarà proprio questo imperatore, emerso dall'oblio per il ritrovamento della testa di una sua statua durante gli scavi in piazza della Signoria a Firenze all'inizio del XX secolo, che avrà l'onore di organizzare i festeggiamenti per i mille anni "ab urbe condita". Essendo stata fondata Roma nel 753 a.C. e avendo i Romani calcolato da allora lo scorrere degli anni, il millennio cadeva appunto nel 248 d.C.
Molto realistica la ricostruzione dei giochi organizzati per l'occasione, la costruzione del grande lago artificiale dove si sfidarono i due equipaggi, egizio e fenicio, che faranno di tutto per distruggersi reciprocamente e ottenere la vittoria. "..il corno fu suonato due volte... si scatenò l'inferno. Le biremi iniziarono il bombardamento. Fu sparato di tutto: braci roventi, chiodi, frecce bersagliarono le navi più piccole finché fu possibile... i morti cominciavano a riempire lo specchio d'acqua".
Ancora più cruda è la descrizione delle lotte tra le belve, prima un elefante e un rinoceronte, poi, quando l'elefante ha sventrato la femmina di rinoceronte, tre tigri entrano nell'arena. Cruda la descrizione della morte che farà l'elefante. "La sua fine fu lenta e brutale. Le tigri iniziarono a staccare brandelli di carne... imponendo al pachiderma un'agonia straziante. Il macabro duello aveva inchiodato l'attenzione del pubblico, ben avvezzo agli scempi" .
Ma se fin qui siamo di fronte a spettacoli adatti per un popolo che aveva bisogno di sangue e di morti (molti anche nelle lotte tra gladiatori!) per rammentarsi del suo dominio sul mondo allora conosciuto, ben diverso è il discorso che a questo stesso popolo farà Filippo l'Arabo per festeggiare adeguatamente il millennio di Roma.
Ascoltiamolo: "Un grande impero che non ha più solo Roma come capitale. Antiochia, Efeso, Alessandria, Sirmio, Treviri... in cui tutti i popoli hanno la propria patria. In ciascuna troverete la biblioteca latina e quella greca. Importanti strade collegano tutte le provincie. Le merci possono con facilità raggiungere tutte le provincie... Ogni religione ha pari dignità e ciascuna ha il suo tempio. Ci sono i templi degli dèi della sacra tradizione, le sinagoghe, i templi di Mithra, le chiese cristiane. E io, l'imperatore, non sono il discendente di una dinastia, ma solo con le mie forze sono arrivato fin qui".
Credo che in queste frasi di Filippo si trovi tutto il senso del pregevole lavoro di Antonacci. La domanda che ci dobbiamo porre, infatti è la seguente. Era già pronta Roma per accettare un' impostazione come quella disegnata da Filippo? Sono finite le contraddizioni tra le "caste" o "dinastie" come le chiama Filippo?
Soprattutto era vero che ciascuno popolo poteva godere di una tale autonomia o erano ancora in corso guerre tremende alle frontiere dell'Impero? La cosa più delicata che Filippo tocca è sicuramente quella della religione. Erano davvero finite le persecuzioni delle religioni non "ufficiali"? Soprattutto era accettata la nuova religione, quella dei cristiani, fin qui perseguitati e costretti nelle catacombe?
A questi interrogativi Gabriele offre la sua risposta con lo sviluppo dei fatti e del racconto che, ovviamente lasciamo al lettore, per gustare da solo altre belle e interessanti pagine di questo romanzo, incentrato sulla figura di Lucio, già attendente di Filippo e che ora troviamo, ricco mercante, sulle sponde dell'Arno.
Qui scatta l'altra ragione che ci obbliga a leggere Elisboth. Da dove tragga il titolo il romanzo ce lo dice lo stesso autore nella nota posta al termine del racconto. "San Miniato è uno dei luoghi più celebri di Firenze... La chiesa è collocata sulla collina un tempo chiamata Elisboth, il bosco sacro a oriente di Florentia". Si capisce facilmente che una parte certamente non secondaria di questo lavoro di Gabriele è proprio dedicata alla ricostruzione della città di Florentia, colta nel momento in cui, dopo la sua fondazione come colonia per assegnare terreni ai veterani dell'esercito, ha ormai assunto la configurazione di cittadina romana, col suo foro (l'odierna piazza della Repubblica) e l'acquedotto da Monte Morello.
È in questo periodo che viene messo mano alla costruzione del teatro e delle terme, presso piazza della Signoria e verso piazza San Firenze. La città, vicina alle vie di comunicazione, della Cassia Nuova in particolare, si era dotata nel 123 del primo vero ponte sull'arno, al di à del quale aveva costruito un vero e proprio Porto fluviale che permetteva commerci fino a Pisa.
Ed è qui, sul porto fluviale, che Gabriele ci fa incontrare per le prima volta a Firenze quel Lucio che, assistente privilegiato di Filippo, l'aveva assistito nelle sanguinose guerre contro i Siriani, che neppure Filippo era riuscito a conquistare del tutto, dovendo scendere a dolorosi compromessi, come sui rapporti con l'Armenia.
Che cosa fa e come si comporta a Florentia, la città dei fiori, l'amico dell'imperatore? Perché non lo ha seguito a Roma, dove pure si recherà per le feste del millennio? Qui emerge tutta l'importanza di questo volume che ci fa conoscere la nostra città in un periodo che non è tra quelli canonici, ormai ampiamente studiati da tutti, come il periodo di Dante e della Repubblica o quello dei Medici e del Rinascimento di cui si continua tuttora a discutere.
Ci sono almeno due aspetti che emergono dalla ricostruzione che ci offre Antonacci. Intanto da quali fattori Firenze trae forza per diventare, agli inizio del 1300, la più popolosa e ricca città del mondo allora conosciuto con oltre 120.000 abitanti, che solo la peste di metà secolo dimezzerà.
In fondo Lucio diventa ricco perché, da abile imprenditore, sa sfruttare le opportunità che Florentia si trova a offrirgli: campagne rese fertili e produttive di prodotti pregiati come vino e olio dagli antichi coloni/veterani romani.
Florentia si trova, come abbiamo visto, al centro delle vie consolari più adatte ai trasporti e, cosa non banale, ha un porto fluviale raggiungibile a poche centinaia di metri dal centro, attraverso il ponte sull'Arnus di cui dispone. Non siamo ancora alla ricchezza dei commerci finanziari e alla ricca produzione di lane e sete, ma ci sono tutte le premesse del futuro, ulteriore sviluppo.
La seconda cosa che il piacevole romanzo di questo benvenuto autore ci mostra a Florentia è lo sviluppo che avrà qui la nuova religione cristiana che, tra l'altro, la porteranno a identificarsi con essa e a farne, come faranno i ricchi banchieri e mercanti dei secoli a venire, un ulteriore asse di sviluppo, sia culturale che identitario.
Ma qui ci fermiamo perché rischiamo di sconfinare nella più conosciuta storia fiorentina.
Ma non si potrebbe chiudere questa recensione senza fare riferimento alla genesi del nome di Florentia, città dei fiori, appunto, che non a caso trovava nei Ludi florales il massimo momento di identità cittadina e che, fino ai nostri giorni, indica la città dei fiori nel meraviglioso giglio che la rappresenta tuttora.
Renato Campinoti
Renato Campinoti
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