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04 marzo 2024

Fёdor Dostoevskij: Memorie del sottosuolo

Uno sguardo amaro sulle parti peggiori dell'umanità, quasi una profezia sul futuro.

Questo non è certamente, almeno secondo me, il capolavoro del grande scrittore russo. Certamente è con romanzi brevi come questo che egli comincia a sfrondare il suo racconto dagli aspetti più indulgenti verso l'umanità e comincia a indicare quella che sarà la direttrice di marcia dei suo capolavori, da Delitto e Castigo all'Idiota, I Demoni fino a I fratelli Karamazov. 
Vale a dire sviscerare nella società e, insieme, nell'animo umano, gli aspetti più ambigui e quindi peggiori che rischiano di vanificare ogni buon proposito di miglioramento. "La civiltà ha reso l'uomo, se non più sanguinario, certamente sanguinario in modo peggiore, più infame di prima", ci ammonisce nella parte iniziale, propedeutica possiamo dire, del racconto vero e proprio. E ancora ci mette in guardia: "...quando il buon senso e la scienza avranno pienamente rieducato e normalmente indirizzato la natura umana. Siete sicuri che allora l'uomo cesserà da sé, spontaneamente, di sbagliare...". 
Insomma, anche quando la società, spesso causa di sbandamenti e povertà estrema, come ci ha mostrato nel primo romanzo veramente riuscito come "Povera gente", cerca di dare alle persone qualche opportunità, non è forse l'uomo che da solo, senza un sostegno esterno, si indirizza nella direzione sbagliata, peggiorando così la sua stessa esistenza? 
Sempre in questa parte in cui Dostoevskij ci preannuncia il senso del suo racconto e della sua ricerca in corso, lo sguardo dello scrittore prova a guardare più in grande al problema dell'umanità: "Provate dunque a gettare uno sguardo alla storia dell'umanità... Uno spettacolo maestoso?... se le danno, anche ora se le danno, se le davano prima e se le davano dopo. Una sola cosa non si può dire: che sia uno spettacolo ragionevole. Alla prima parola vi si impiglierebbe la lingua." 
La ragione di tutto ciò è ancora una volta nel difetto dell'uomo: "...il suo principalissimo difetto è la costante immoralità... Immoralità, e per conseguenza irragionevolezza". 
Qui Dostoevskij sembra quasi avere uno sguardo profetico quando ammonisce l'umanità: "...non mi meraviglierei per nulla se a un tratto... sorgesse un qualche gentleman dall'aspetto ignobile... si mettesse le mani sui fianchi e dicesse a noi tutti: ebbene signori? Non dobbiamo buttar giù tutta questa saggezza d'un colpo, con una pedata mandandola in polvere... e che noi si possa vivere secondo la nostra sciocca volontà?... il guaio è che senza fallo troverebbe dei seguaci: così è fatto l'uomo". 
Il tempo passa, il nostro autore trova anche un po' di fama in Patria alla fine della sua esistenza. Ci vorranno ancora decine e decine di anni, ma alla fine di uomini con le mani sui fianchi che arringano piazze piene di gente con discorsi demagogici, l'umanità ne vedrà più di uno! Come sappiamo, saranno dolori per la saggezza e per l'umanità intera. 
Poi arriva il racconto vero e proprio "A proposito della neve bagnata" che in sostanza dimostra la meschinità nella prima parte: "Al quel tempo non avevo che ventiquattro anni. La mia vita era già allora tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza". 
Con una partenza così non ci si può che aspettare una lettura poco edificante del pensiero di un individuo così. Infatti poco dopo, parlando del rapporto con gli altri ci confessa che "Tutti i nostri impiegati d'ufficio io, s'intende, li odiavo dal primo all'ultimo, e li disprezzavo tutti, e insieme pareva che li temessi". 
Tutta la prima parte del racconto è pieno delle contraddizioni del protagonista, che proprio per questo diventa lo zimbello e il ricettacolo di tutte le meschinità e cattiverie degli altri. Così, alla vigilia del pranzo per festeggiare Zverkov, l'antico amico di scuola, ora alla vigilia della sua promozione a ufficiale in una località di provincia, egli lo ricorda con rancore come "uno specialista in fatto di disinvoltura e buone maniere. Quest'ultima cosa mi infuriava in modo speciale... odiavo il suo viso bello, ma sciocco (col quale, del resto, avrei cambiato volentieri il mio intelligente)". 
Farà di tutto il nostro e sarà invitato al pranzo con gli altri, finendo per essere denigrato e umiliato più volte, anche per i pochi soldi con cui deve fare i conti. 
Si apre così la seconda, tremenda parte del racconto, quella nella quale lui incontra la giovane e bella prostituta, Liza, sulla quale esercita il massimo della cattiveria, seducendola con parole di incoraggiamento a lasciare, fino che è in tempo, quel mestiere umiliante e cercare il vero amore, facendo intendere che può trovare in lui il sostegno necessario. In sostanza esercita su di lei la cattiveria e l'inganno di cui lui stesso è oggetto da parte degli altri. 
Si arriva così alla parte più crudele del racconto, quando Liza, convinta dalle false parola del nostro, si fa viva con lui con la speranza di essere accolta e accompagnata a una nuova esistenza. Non solo lui la respinge, ma sembra quasi godere dell'inganno in cui ha tratto la poveretta. 
Qui emerge di nuovo il carattere meschino dell'essere umano che Dostoevskij ci addita. "Avevo piena coscienza di tutta la disgustosa bassezza della mia maligna stupidità, e nello stesso tempo non potevo assolutamente trattenermi". 
 Termina qui, in sostanza, il racconto forse più esplicito e più amaro del grande scrittore russo, non senza lanciarci un ultimo ammonimento: "Tutti noi ci siamo disabituati alla vita, tutti zoppichiamo, chi più chi meno"

Renato Campinoti



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