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07 giugno 2023

Julie Otsuka: Nuoto libero

 Stamattina ho terminato il libro del gruppo di lettura del GSF, si tratta di “Nuoto libero” di Julie Otsuka una scrittrice giapponese nata in America.

Credo di non avere mai letto un libro scritto come questo. perché tutta la forza del romanzo sta proprio nella forma in cui è stato scritto.
Intanto si può sicuramente dire che più che di un romanzo si tratta di un memoir in quanto è fin troppo palese il coinvolgimento dell’autrice nelle vicende del libro. Troppi sono i riferimenti al suo ruolo di scrittrice, inoltre non credo che chi non ha attraversato le vicende descritte possa entrarci in una forma così coinvolgente. La vicenda parte da una apparente normalità, un gruppo di persone che a cadenze regolari vanno a nuotare in una piscina nei sotterranei di un palazzo. Non c’è da stupirsi di questo perché anche quando sono andata io negli Stati Uniti, nell’albergo dove ho alloggiato a New York la piscina era nel sottosuolo. Dunque si parte da una comunità di persone che si ritrovano per nuotare e che si conoscono per quello che sono durante la loro attività sportiva. Tra loro c’è Alice “una tecnica di laboratorio in pensione con un principio di demenza – viene qui perché c’è sempre venuta. E anche se forse non ricorda la combinazione dell’armadietto o dove ha messo l’asciugamano, dal momento in cui si immerge in acqua sa cosa fare. La sua bracciata è lunga e fluida, il colpo di gamba potente, la mente lucida. «Lassù» dice, «sono una vecchietta come le altre. Ma quaggiù, in piscina, sono me stessa».“
È così che viene presentata la protagonista del racconto, ci viene subito messo sul piatto la sua malattia, una forma di demenza diversa dall’Alzheimer ma ugualmente progressiva e devastante.

Il libro è diviso in capitoli che seguono il progressivo avanzare della malattia: il primo parla della piscina sotterranea e della varia umanità che la frequenta.
“Lo choc dell’acqua – non c’è niente di simile sulla terraferma. Il liquido fresco e trasparente che scorre sopra ogni centimetro di pelle. La momentanea sospensione della gravità. Il miracolo del galleggiamento mentre scivoli, senza impedimenti, sulla liscia superficie azzurra della piscina. Sembra proprio di volare. Il puro piacere del movimento. Il dissolversi di ogni bisogno. Sono libera. D’un tratto sei sospesa. Alla deriva. Estasiata. Euforica. In uno stato di grazia entusiastico e ipnotico. E se nuoti abbastanza a lungo non sai più dove finisce il tuo corpo e dove comincia l’acqua, e cadono i confini fra te e il mondo. È il nirvana.”
Il secondo intitolato “la crepa” racconta del comparire di una fessura sul fondo della piscina che diventa metafora del progressivo sgretolarsi di sicurezze e certezze.
“Per alcuni giorni sbirciamo circospetti la crepa e aspettiamo che succeda qualcosa. Che si allarghi, o si scurisca, o cambi aspetto e forma, o si replichi, come un virus, nelle corsie sette e otto. Ma la crepa rimane testardamente, silenziosamente, ineffabilmente se stessa: un’incrinatura capillare non più lunga dell’avambraccio di un bambino sul fondo della nostra piscina.” […] Tutti abbiamo domande: la crepa avrà vita breve o duratura? È una cosa da niente o seria? Maligna, benigna o – dice James, l’esperto di etica nella corsia due – moralmente neutra? Da dove è venuta? Quanto è profonda? C’è dentro qualcosa? Chi l’ha provocata? Possiamo cancellarla? E soprattutto: Perché proprio a noi?”
Perché? È la domanda che ci si fa anche quando ci colpisce una malattia e la crepa diventa metafora di qualcosa che viene a turbare lo status quo. “Alcuni di noi temono che la crepa si sia aperta per colpa nostra. Ce ne vergogniamo, come se fosse un’imperfezione, un difetto, un errore incancellabile, una macchia morale sulla nostra anima che ci siamo procurati da soli.”
Il terzo “Diem perdidi” richiama la frase pronunciata dall’imperatore Tito e significa letteralmente “giornata persa”, in cui c’è ancora lo sgretolamento progressivo della memoria, con ricordi a breve termine perduti e invece ricordi del lontano passato ancora presente.
È qui in questo capitolo che si fa più prepotente il martellare della scrittura, una scrittura per liste, elenchi con ripetizioni ossessive “Ricorda il suo nome. Ricorda il nome del presidente. Ricorda il nome del cane del presidente. Ricorda in quale città vive. E in quale via. E in quale casa. Quella con il grande ulivo dove la strada fa una curva. Ricorda in quale anno siamo. Ricorda la stagione. Ricorda la tua data di nascita. Ricorda la figlia che nacque prima di te” […] “Non ricorda come si è fatta quei lividi sulle braccia, né di essere uscita a passeggio con te questa mattina. Non ricorda di essersi chinata, durante la passeggiata, per cogliere un fiore dal giardino di un vicino e infilarselo tra i capelli. Magari tuo padre mi bacerà, adesso. Non ricorda cos’ha mangiato ieri sera a cena, né quando ha preso la medicina. Non si ricorda di pettinarsi.”
Si comincia a percepire un ritmo di scrittura, che diventa incalzante, come se le ripetizioni servissero a riportare alla mente i ricordi di “giorni perduti“. È come uno svaporare progressivo, attraverso le liste delle cose che si ricordano e che non si ricordano più.
Nel quarto capitolo “Bellavista” c’è l’ingresso di Alice in una casa di cura e la descrizione dell’atmosfera che si respira in strutture di quel tipo.
“Benvenuta al Bellavista. Siamo una residenza a lungo termine for profit per disturbi della memoria” Qui il punto di vista cambia è la struttura che parla, raccontando come è la vita all’interno, con le squadre della memoria, la sala selle attività, le sale da pranzo per mangiatori lenti ecc…
“Come nuova residente del Bellavista ci sono alcune cose che deve sapere. Si sveglierà quando lo decideremo noi. Dormirà quando la metteremo a letto e spegneremo le luci. I posti nella Sala da Pranzo sono tutti assegnati (se necessita di più dei quarantadue minuti concessi per mangiare può chiedere di sedersi a uno dei nostri «tavoli per mangiatori lenti»). Non esca nei corridoi di notte a cercare suo marito e i suoi figli (suo marito dorme della grossa nel grande letto vuoto, i suoi figli sono cresciuti e sparsi in giro per il mondo). Non cerchi di aprire le finestre (le finestre non si aprono) o di digitare insensatamente numeri a caso nella serratura a combinazione accanto alle porte dell’ascensore (la combinazione è indecifrabile). Se non riesce ad adeguarsi alle regole, potremmo essere costretti a darle una pillola. Se si oppone al suo piano di cura personalizzato, potremmo essere costretti a darle una pillola. Se rifiuta di prendere la pillola, potremmo essere costretti a darle una pillola oppure a farle una iniezione“.
C’è in questa descrizione una spietatezza distaccata e crudele, c’è tutta l’efficienza di un luogo che più che di cura sembra una prigione e in definitiva lo è, una condanna all’ergastolo. In fondo dal Bellavista non si esce che quando si muore.
Infine nell’ultimo capitolo “Euro neuro” sappiamo come è la fine di Alice raccontata dalla figlia che vede la mente della madre perdesi completamente. C’è la disperazione del marito che non si rassegna a vedere la casa vuota “E poi ti domandi: senza tua madre in cucina, lui chi è? Un vecchio in una casa vuota“. che non vuole che il letto dove dormiva sia rifatto quasi ad augurarsi che lei torni da un momento all’altro.
Alice rimane quattro anni nella residenza, dove la figlia la va a trovare cinque giorni alla settimana, il suo declino diventa sempre più evidente e inesorabilmente si avvia alla fine. È in questo capitolo che troviamo i racconti più commoventi ed emozionanti, tanto che non ho potuto fare a meno di avere gli occhi lucidi, sempre però raccontati con lo stile quasi distaccato e asettico di tutta la narrazione.
Leggere questo libro mi ha ricordato di quando ho ascoltato il “Bolero” di Ravel, in cui c’è un crescendo di strumenti che si mettono progressivamente a suonare e che tutti insieme formano una musica potente e vitale. La scrittura di questo libro ha la stessa potenza, pur descrivendo una perdita, c’è tutta l’intensità del’amore di una figlia per sua madre, c’è la progressiva consapevolezza di qualcosa di ineluttabile che diventa rumore che cancella tutto ciò che sta intorno.
È un romanzo da leggere, e capire nella sua semplicità e ripetitività perché l’autrice è riuscita a farne una sinfonia tanto potente da entrare nel cervello come una goccia che scava la pietra. Dietro questo romanzo, che ho detto romanzo non è, c’e un dolore così grande e così struggente che lascia annichiliti e non rimane che lasciarsi andare dentro il racconto, dentro le parole martellanti e ripetitive, sperando che non succeda anche a noi.

Ada Ascari

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