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02 aprile 2022

Renato Campinoti: Niente è come sembra (il caso del silenziatore)

L’avvocato Roberto Montesi, che pure aveva ottenuto successi in cause non meno complicate e impegnative di quella che stava sfogliando di nuovo, era il primo a non credere possibile di trarre il proprio assistito fuori dai guai, di quelli giudiziari in cui era incappato.
Martino Passoni, giovane spacciatore, più volte entrato e uscito da Sollicciano per poco più che modiche quantità di droga trovatagli nelle tasche dalle consuete retate in certe zone delle cascine, questa volta l’aveva combinata davvero grossa.
Avvertita da una telefonata anonima, la polizia aveva fatto irruzione nell’abitazione di tal Guiducci Antonio, trovandolo disteso in terra con un buco in una tempia da cui fuorusciva sangue e non solo, con il Passoni chinato su di lui, con in mano una pistola da cui era partito il colpo mortale.
Il morto risultò essere un fornitore di droga da smerciare per i giovani spacciatori che agivano sulla piazza fiorentina, anche lui al servizio di ben più potenti cosche calabresi ormai ampiamente presenti in città. Non essendo infrequenti i casi di azioni punitive verso gli spacciatori, a loro volta tossicodipendenti, che avessero violato le consegne degli incassi, come pure azioni difensive degli stessi per non subire ritorsioni, fu facile deduzione per la polizia e il magistrato rubricare il delitto in questa seconda fattispecie da parte del giovane.
La circostanza della flagranza del Passoni non faceva che avvalorare definitivamente tale ipotesi. Tutto, insomma, combaciava.
L’indomani ci sarebbe stata l’udienza. L’avvocato Montesi si decise a fare un’ultima visita al suo assistito in carcere. Si trattenne per più di un’ora, parlando fitto fitto. All’uscita dal carcere l’avvocato si recò in viale Volta, all’appartamento del Guiducci. Ma non suonò al suo campanello. Quando uscì dal portone era sicuro che ce l’avrebbe fatta anche questa volta a fare il suo mestiere di difensore.
La prima persona che l’avvocato chiamò alla sbarra la mattina seguente, dopo l’arringa del pubblico ministero, fu il condomino che abitava due piani sopra il Guiducci e che garantì di essere in possesso di un ottimo udito, di essere stato in casa al momento del possibile sparo («non mi sono mosso per tutto il pomeriggio, suo onore») e di non aver udito nessun rumore paragonabile a un colpo di pistola. Volendo, avrebbero potuto fare una verifica diretta. I poliziotti che avevano fatto un giro nel palazzo si erano limitati a sentire solo i condomini sopra e sotto l’appartamento della vittima.
Decisivo fu il ritrovamento, nel cestino fuori del condominio, del silenziatore che qualcuno aveva usato per sparare e di cui si era prontamente disfatto, sicuro che nessuno avrebbe fatto ricerche di quel tipo. Certamente non poteva essere stato il Passoni, trovato bloccato in casa, a compiere un simile atto. E poi, perché?
«Se voi avrete la bontà di prendere le dovute informazioni, verrete a sapere che i problemi con i suoi “superiori” era il Guiducci ad averli, da tempo nel mirino delle cosche per più pagamenti arretrati.
Basta informarsi sul tenore di vita eccessivo che il suddetto si era abituato a tenere».
L’avvocato si fermò un attimo per guardare il suo assistito, che stava riprendendo un po’ di colorito. Poi, si decise ad esporre la sua tesi su quel delitto, spiegando che la cosa più plausibile era che il killer che aveva agito per conto delle cosche, avrebbe dovuto far apparire quell’esecuzione come un suicidio da parte di un uomo ormai da tanti, nell’ambiente, ritenuto un morto che cammina. Perciò il killer doveva al tempo stesso non fare esplodere un colpo di pistola mentre lui era ancora in casa, usando perciò il silenziatore. Al tempo stesso disfarsene perché «non è che uno usa il silenziatore se decide di spararsi alla testa», come chiosò l’avvocato.
In conclusione Montesi fece notare che, contrariamente a tutte le apparenze, il suo assistito aveva avuto solo la sfortuna di trovarsi in casa del morto proprio quando qualcuno, uscito di scena, lo aveva visto arrivare e aveva colto l’occasione di telefonare alla polizia.
Ci vollero la riapertura dei termini del processo e un supplemento di indagini per le opportune verifiche, ma alla fine il giovane Martino fu assolto dal gravissimo reato in cui era incappato.
Le indagini si indirizzarono verso le cosche calabresi, durando molto a lungo e finendo nelle sabbie mobili.

Renato Campinoti

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