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24 febbraio 2022

Renato Campinoti: Racconto: Una mia foto, una storia

Una mia foto piccola e un gran ricordo

La foto che vi mostro è l’unica che mi è rimasta di un più numeroso reportage che ebbi occasione di fare durante quell’incredibile esperienza nel deserto algerino. 
A forza di tenerla con me, nei numerosi traslochi che mi è capitato di fare negli ultimi venti anni della mia vita, ho finito per considerarla una delle tante. 
Ma non è così. Ogni volta che la guardo meno distrattamente del solito, il ricordo di quell’esperienza riaffiora con forza nella mia mente. E con esso il senso profondo di un’ingiustizia e una sofferenza inflitta inutilmente ad un intero popolo. 
Dove ero? In visita alla Repubblica del Popolo Sahrawi. 
Perché ero lì? Si celebravano in quei giorni i dieci anni dalla nascita della Repubblica, costituitasi il 27 febbraio del 1976 in seguito all’espulsione di quel popolo dai territori del Marocco. 
Io ero stato eletto consigliere della Provincia di Firenze, la quale aveva instaurato, insieme a molti sindaci del suo territorio, una forte azione di collaborazione con il Fronte Polisario, espressione organizzata di quel popolo. Di qui la organizzazione di una delegazione di tutti i gruppi politici, con in testa il Presidente della Provincia e numerosi sindaci dei comuni impegnati nelle missioni di aiuto.

Come non ricordare il volo che, sbarcati ad Algeri, messi sopra un aereo militare (vi garantisco che non è la stessa cosa di quando si sta seduti comodi nelle poltroncine del volo civile!), sbarcammo dopo un paio d’ore a quello che veniva chiamato l’aeroporto di Tindouf, che era in realtà una striscia di cemento ricoperta perennemente dalla sabbia del deserto portata dalla continua ventilazione, e una baracca diroccata da cui si passava per raggiungere le Jeep dell’esercito del Fronte Polisario, venute appositamente ad accoglierci.

L’accoglienza festosa e amichevole di quei giovani di colore, alti e dai lineamenti molti belli (c’è chi sostiene non casualmente che all’origine della segregazione di questo popolo di mezzo milione di anime ci siano anche gelosie verso una etnia dai caratteri somatici raffinati e molto piacevoli!), mi fece subito capire quanto fosse apprezzata la solidarietà dei nostri amministratori che provvedevano ad accogliere ogni anno nelle case dei loro concittadini e nei loro ospedali i bambini Sahrawi che necessitavano di attenzioni e di cure. Per non parlare della incessante mobilitazione per divulgare il diritto di quel popolo al legittimo riconoscimento internazionale e alla restituzione dei territori sottratti dal Marocco al loro possibile insediamento. Era perfino stato costruito un muro, tuttora in piedi e presidiato dall’esercito, per impedire sconfinamenti verso i loro ex territori.

Non meno calorosa fu l’accoglienza riservataci dalle nelle loro tende, che avevano sostituito le case abbandonate gioco forza di là dal muro. Subito ci fu servito il tris di piccoli bicchierini di the di differente forza e colore: il primo gentile come la vita, il secondo forte come l’amore, il terzo amaro come la morte.

Imparammo poi, girando per i diversi villaggi di tende che riproducevano le loro città murate e abbandonate, che ci trovavamo in presenza di una civiltà sostanzialmente matriarcale, dato che tutti gli uomini erano impegnati nella guerra per la riconquista dei loro territori, insieme per la verità anche alle donne giovani, e dove le mogli più mature dovevano provvedere alla cura dei bambini e delle loro abitazioni. Indimenticabili i loro canti e spettacoli con quei tipici ululati con lingua e palato che ci facevano immaginare una vitalità e un amore per la vita ben più robusta che dalle nostre parti.

Ospitati ovviamente nelle tende, dovemmo scoprire l’importanza delle istruzioni che ci vennero date a proposito di come affrontare le tempeste di vento, quando il ghibli spazza via la sabbia che si trasforma in milioni di microscopici proiettili in grado di impedirti la vista e, soprattutto, di ferirti seriamente gli occhi. Capimmo la ragione per cui ci avevano imposto di portare con noi i vecchi occhiali da motociclisti per uscire dalle tende quando, durando per molte ore la tempesta, dovevamo tuttavia allontanarci dal villaggio per rendere giustizia ai nostri bisogni corporali. Ed era a dir poco divertente, anche senza tempeste, vedere di quando in quando qualcuno o qualcuna allontanarsi dal perimetro delle tende. “Sta andando in bagno”, imparammo a dire sorridendo.

Lo spettacolo più grandioso di cui mantengo vivo il ricordo è la sfilata dell’esercito del giorno della celebrazione del decennale, quando, insieme agli uomini, centinaia di donne alte, fiere, bellissime, sfilarono nelle loro divise, pantalone e camicia attillata, di colore verde e marrone, i colori di quella Repubblica. “Se non sapessimo che è una guerra, ci potrebbe sembrare una sfilata di bellissime ragazze”, ci venne di commentare.

Ci trattenemmo una settimana in quella affascinante e dura esperienza. Mangiammo, chi voleva, carne di capretto alla brace e molte arance. Io mi nutrii quasi esclusivamente di frutta e pane. Ma nessun sacrificio mi pesava a fronte della espressione di fierezza e di riconoscenza negli occhi di quelle donne e di quegli uomini.

Quella foto è ancora lì accanto a me, sulla mia scrivania. Mi ricorda, con tanta amarezza, che quel popolo vive ancora lì, in quelle condizioni, nonostante dal 1992 sia cessata la guerra, l’Onu abbia imposto di celebrare un referendum tra tutte quelle popolazioni, comprese quelle rimaste nei territori oltre il muro, che tuttavia non si è voluto finora tenere per la paura che prevalga il diritto dei Sahrawi a tornare nel loro paese.

E intanto continua la gara di solidarietà in molti nostri comuni per l’accoglienza di quei bimbi che, privi di strutture sanitarie adeguate, vengono ospitati dai nostri concittadini per alleviarne le sofferenze.



Renato Campinoti

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