Mi chiamo Amina e vivo in un piccolo villaggio vicino a Kabul, la capitale del Paese più martoriato del mondo. Ho un figlio, si chiama Rashid e ha poco più di sedici anni, compiuti nei giorni scorsi. Ma non so dove sia. Neppure se sia ancora vivo. Anche se sento che lo saprei, dentro di me, anzitutto, se…se non ci fosse più. E sono qui disperata, ad aspettare un segno, una notizia, qualcosa, che mi riporti lui, Rashid.
Non potete immaginare l’ansia e la tristezza che si prova quando sei stata tu a mandare via tuo figlio.
C’è gente che mi guarda come fossi una madre snaturata.
Eppure lo rifarei mille volte, quando vedo quello che può capiate, è capitato da queste parti ad altri giovani dell’età di mio figlio.
Quando ho preso questa decisione, gli americani erano ancora nel nostro Paese, ma era chiaro come il sole che non sarebbe durata. Ed era chiaro anche che i talebani, figli della maggioranza Pashtun, si stavano preparando a riprendere il potere non appena quelli, come avevano già dichiarato, si fossero allontanati. Noi siamo di un’altra etnia, siamo hazara, perseguitati sempre con maggior accanimento dai Talebani. Ma abbiamo resistito, almeno finora.
La cosa più brutta che i talebani fanno sempre più spesso è di prendere i nostri ragazzi, vorrei dire i nostri bambini, indottrinarli bene bene, riempirli di esplosivo e farli esplodere nei centri commerciali o nei mercati a morire loro e fare strage di altri poveri innocenti.
Io ho deciso di no, che non avrei mai fatto fare una fine del genere a mio figlio.
Quante mamme mi hanno guardato incredule e con un po’ di invidia per aver avuto il coraggio di mandare via mio figlio prima che fosse troppo tardi.
Ho avuto la fortuna di aver messo da parte, grazie anche ai miei che hanno fatto un po’ di soldini con la loro attività di vendita di alimentari, un discreto gruzzoletto che mi ha permesso di affidare Rashid a uno di quelli che organizzano i barconi per attraversare il mare e andare fino all’Europa.
Ora sono passati due anni da quando il barcone è partito. So solo che il proprietario è riuscito a tornare e ha detto che tutto è andato bene. Che ha lasciato Rashid, come gli altri, sulle coste della Turchia e che da lì saranno presi per andare prima in Grecia e poi in Italia. E poi è ripartito per un altro viaggio, ma questa volta non è tornato.
Da allora, da pochi mesi dopo la sua nuova partenza, non ho avuto più notizie di mio figlio.
Molti, qui nel quartiere, mi cominciano a guardare come quella che ha mandato via il figlio, senza curarsi della fine che ha fatto. Anche se, devo dire, da quando gli americani se ne sono andati ed è cominciato il caos infernale e la miseria che tutti conoscete, sono ancora più convinta di aver fatto bene a mandare via mio figlio.
Solo, vorrei tanto sapere dove è, se si è salvato, se ha trovato qualcuno che lo abbia accolto e messo al sicuro. Spero tanto sia in Italia. Lì c’è quel Papa che ha capito il dramma dei popoli come il mio e invita tutti ad accogliere i disperati che cercano di farsi una vita decente dalle loro parti. Lo so che non tutti la pensano come lui, ma qualcosa stanno facendo, mi dicono, da quelle parti.
Oggi, finalmente, dopo due anni di incredibili peripezie e avventure, sono riuscito a raggiungere Roma, la grande, bellissima Roma, che mi ha accolto con affetto e, grazie a questa associazione che conoscerò meglio nei prossimi giorni, sono stato sistemato in una bella struttura riservata a quelli come me, i minori non accompagnati, mi hanno detto. Avrò un letto tutto per me e da mangiare. In cambio dovrò solo dare una mano per le cose che ci sono da fare in cucina, nel refettorio, nell’orto che abbiamo a disposizione e altre che non vedo l’ora di cominciare a fare.
A dirla così sembra una cosa facile e anche bella; ma sapeste quante ne ho passate prima di arrivare qui.
Qualche volta ho rischiato perfino di essere buttato in mare quando ci ha colpito la bufera e non si sapeva se il barcone ce l’avrebbe fatta a portarci tutti in salvo. Qualcuno c’è proprio caduto in acqua. E il titolare non si è certamente fermato ad aspettarlo. Ho visto in faccia la morte quando sono stato inseguito dalla polizia di quel brutto Paese, la Turchia, che prende prigionieri gli emigranti per ricattare gli altri Paesi. Sono fuggito da Orchi che aspettano i ragazzini nelle città dove ci sbarcano per portarseli a casa e farci i loro porci comodi. Anch’io sono stato preso da uno di questi maiali: fortuna ha voluto che quando sono fuggito di casa prima di farmi mettere le mani addosso, ho incontrato un signore che ha capito da cosa scappavo e mi ha aiutato a raggiungere questo posto. Ora, dopo due lunghi anni, di cui vi ho detto davvero solo l’essenziale, sono finalmente nell’ambiente giusto. Mi hanno anche detto che mi aiuteranno a fare la cosa cui tengo di più. Rintracciare finalmente la mia mamma e dirle quanto le sono grato di avermi fatto fuggire dall’inferno.
Da quando sono fuggiti (non saprei dirlo diversamente) gli americani e i loro alleati, quaggiù è diventato un posto sempre meno vivibile. Per noi donne, per quelle come me che non hanno mai creduto che il nostro Dio possa volere un mondo così ottuso e assassino, non c’è più pace. Bisogna solo subire se non vogliamo essere messe alla gogna e perfino fatte fuori brutalmente.
Ma oggi è un giorno speciale. Oggi sono stata chiamata dal mio vicino che ha un emporio importante nel villaggio per dirmi che c’era qualcuno al telefono per me-.
Quando ho sentito la voce di Rashid, quando mi ha detto che era sano e salvo e in un posto dove tutti gli volevano bene, piano, piano la gioia si è impadronita della mia esistenza.
Sono uscita dal negozio, mi sono guardata intorno, camminavo e mi è venuto da piangere, di tanta, tanta gioia e di speranza che un giorno o l’altro ce la potrei fare anch’io a raggiungere Rashid.
Scritto da Renato Campinoti
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