Ho appena finito di (ri)leggere "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia. L'avevo già letto da giovanissimo (quasi cinquanta anni fa!) e l'ho fatto ora per il libro del mese di gennaio del gruppo "Una sera...un libro" che abbiamo organizzato a cura del GSF. Devo dire che il libro mantiene intatta tutta la sua attualità, anche come sintetico manuale sulla mafia siciliana. Sapendo, naturalmente, che si tratta di una mafia che potremmo definire "paesana", legata ad affari cospicui, tuttavia nell'ambito di un'economia sostanzialmente arretrata e povera. Ben altra cosa sarà la mafia al tempo delle grandi speculazioni edilizie di Palermo e delle altre città, e, soprattutto, con l'ingresso in grande stile nello smercio della cocaina e degli stupefacenti più in generale, fino alla lotta mortale del clan dei corleonesi contro tutte le organizzazioni mafiose precedenti e contro lo Stato stesso. E tuttavia la decisione di Sciascia di svelare le caratteristiche e i meccanismi mafiosi e, soprattutto, le strette connessioni col potere politico, ebbe, nel 1960, un carattere coraggioso e dirompente. E' lo stesso autore ad avvertirci, nella postfazione al libro, di quanto attento ed impegnativo sia stato il lavoro di cavare per togliere riferimenti troppo espliciti a questo o quel personaggio o ambiente (le stesse cittadine vengono richiamate solo con la lettera iniziale:es.S sta per Sciacca, ma non si dice!), pena andare incontro a conseguenze anche personali poco piacevoli. Ma il racconto è prezioso anche da un punto di vista letterario, per il ritmo che l'autore riesce a dare allo sviluppo delle vicende e anche, a mio modo di vedere, per lo scavo vorrei dire psicologico dei personaggi, sia di quelli "positivi" (più delineato il personaggio del capitano Bellodi, che, pur beffato dalla classe politica siciliana e nazionale, non si arrende di fronte a tale situazione), come pure di quelli "negativi", dove Sciascia sembra distinguere tra il capo mafioso, pur anche lui costretto a perdere un pò della sua baldanza e sicurezza di fronte all'arguzia del Capitano e i personaggi minori, più"usati" che protagonisti, in perenne stato di precarietà e di paura. Trovo in questi schizzi dei vari Parrinieddu, il confidente incappato in una vicende troppo grande e perciò incapace di gestire la sua angoscia, e lo stesso Zichinedda, vero e proprio killer, tuttavia inadeguato anche lui di fronte ad un rappresentante della legge non disposto a farsi beffare da personaggi del suo basso livello morale, una condanna di Sciascia verso i propri conterranei e, insieme, un'esortazione a uscire da un sistema che li condanna solo a vivere male e a subire le angherie dei potenti di turno. Dopo qualche anno è lo stesso Sciascia a ricordarci che l'intenzione più vera di questo suo libro è quella di mostrare come la mafia degli affari non è la borghesia che imprende alcunchè, ma solo sfrutta gli altri e le situazioni che costruisce con l'omertà della politica.E' ancora il tempo, per Sciascia, della speranza che le cose possano cambiare. Emblematico di questo stato d'animo dell'autore il proposito, pronunciato a voce alta dal Capitano Bellodi in vacanza nella sua Parma e intenzionato a tornare in Sicilia: Mi ci romperò la testa
Renato Campinoti
Nessun commento:
Posta un commento