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23 marzo 2021

I divergenti sposi (Acciai Campinoti)

I divergenti sposi (parte prima)
Di Massimo Acciai Baggiani e Renato Campinoti

L’uomo si faceva largo nel bosco, tra pruni, quercioli e arbusti. Era un uomo giovane, impaurito, che cercava solo di mettersi in salvo al di là del fiume. Su di lui c’era un mandato di cattura. Essere preso significava tortura e impiccagione: questo l’uomo lo sapeva bene, come sapeva bene di essere innocente. Non era la prima volta che lo scambiavano per ciò che non era, ma questo la Giustizia non lo sapeva e tentare di convincere i suoi inseguitori sarebbe stato troppo rischioso. Gli alberi nella luce del crepuscolo assumevano forme strane, inquietanti, come nelle fiabe che ascoltava da bambino. Procedeva con l’animo combattuto tra il desiderio di bussare all’uscio di qualche contadino e quello di tenersi lontano dai suoi simili, con l’orecchio teso a cogliere il mormorio delle acque. Non era mai stato da quelle parti: aveva seguito le indicazioni ricevute all’osteria a Gorgonzola dove si era fermato a mangiare un boccone che quasi gli era andato di traverso quando aveva sentito un mercante, giunto da Milano, parlare proprio di lui, in termini poco lusinghieri. Poi un uomo misterioso gli aveva spiegato come raggiungere l’Adda nel punto in cui faceva da confine tra il bergamasco e il ducato di Milano. C’era qualcosa di strano nel suo sguardo, ma non aveva scelta: doveva fidarsi.

Certo conosceva la natura, era pur sempre un contadino anche lui, ma in quella situazione tutto gli appariva minaccioso. Cammina cammina arrivò a una grande quercia, sulla cui corteccia qualcuno aveva tracciato strani segni. Sembravano simboli magici. Rabbrividì e si fece il segno della croce.

Poco prima gli era parso di sentire la voce amica dell’Adda, ma doveva essersi sbagliato perché pochi passi più avanti era scomparsa. Ormai era buio. Sarebbe stato inutile e pericoloso proseguire oltre. Doveva aspettare le prime luci del mattino. Si stese sotto la quercia frondosa dopo aver raccolto un po’ di frasche ed erba per fare un giaciglio di fortuna e aver dette le preghiere serali, quindi, nonostante la preoccupazione, cadde addormentato dopo pochi minuti. Era davvero stanco; le emozioni della giornata lo avevano fiaccato e, adesso che si sentiva al sicuro almeno dai birri, le membra si rilassarono e piombò in un sonno senza sogni.



Quando si svegliò, a mattino inoltrato, col cinguettio degli uccelli e i mille fruscii del bosco, le ansie del giorno prima aggredirono di nuovo la sua mente. C’era qualcosa di strano nel paesaggio; non sembrava esattamente lo stesso in cui si era addormentato la notte prima. C’era qualcosa di diverso che non avrebbe saputo dire; anche la grande quercia aveva qualcosa di insolito. Non ci fece molto caso, si sa che un paesaggio sconosciuto ha un aspetto diverso di notte rispetto al giorno. Si rialzò con le ossa indolenzite per la scomodità del “letto” e per il freddo, con la fretta di chi non si sente ancora in salvo. Tuttavia sarebbe stato più facile trovare l’Adda con la luce del sole, anche se non aveva idea di dove si trovasse. Proseguì verso oriente, seguendo il sole che si intuiva più che vedere tra la vegetazione fitta.

Camminò a lungo prima di sentire di nuovo il mormorio familiare del fiume. Il sole era già alto. Camminare gli tolse un po’ di quel ghiaccio che gli era penetrato nelle ossa durante la notte. Era pur sempre novembre. Il 13 novembre 1628.

Quel suono dolce, come la voce di un fratello, cancellò i pensieri cupi in un attimo, insieme ai brividi di freddo e ai dolori. Accelerò il passo e in pochi minuti si ritrovò sulla riva. Dall’altra parte scorgeva i paeselli della Repubblica di San Marco e, più in là, una città. Bergamo. La salvezza. Adesso era impaziente di trovarsi di là, in territorio veneto, e riabbracciare il cugino Bortolo a cui avrebbe fatto una bella sorpresa. Doveva solo trovare un passaggio per attraversare il fiume. Lo percorse con lo sguardo alla ricerca di qualche barca. Ne adocchiò una che stava giusto approdando dalla sua parte. Fece un segno di saluto al pescatore, il quale lo guardò con un misto di sorpresa e diffidenza prima di approdare.

«Mi fareste il servigio, col pagare, di tragittarmi di là?» domandò l’uomo saltando nella barca del pescatore. Questi non sapeva che rispondere, ma quando l’uomo gli mostrò delle monete luccicanti, si convinse e gli porse un altro remo che giaceva sul fondo della barca.

«Non riconosco il vostro dialetto» disse il pescatore ad un certo punto. «Siete lombardo immagino.»

L’uomo fece un po’ di fatica a comprendere il dialetto dell’altro.

«Vengo da Milano, ma sono originario delle montagne di Lecco.»

«Come vi chiamate?» domandò il pescatore.

L’uomo esitò. Rivelare il proprio nome era stato proprio l’errore che, due giorni prima, lo aveva messo in quella brutta situazione. La mente riandò a quel giorno di tumulto nelle vie di Milano, all’assalto al forno e a quella disgraziata serata in osteria con quell’individuo traditore che si era rivelato un agente di polizia. Ma poi pensò che stavolta non c’era alcun pericolo a dire chi fosse: il Ducato era alle spalle, ormai lontano, e la città di Bergamo ormai vicina. Mancavano pochi metri alla riva.

«Il mio nome è Renzo Tramaglino, per servirla.»

Il pescatore si mise a ridere forte.

«Ah, lei signore ha voglia di prendermi in giro!» disse il pescatore poi, vedendo che il suo compagno di traversata si stava rabbuiando in viso, pensò probabilmente di aver a che fare con uno squilibrato, che il era nome finto, e che forse era un criminale in fuga.

«Il mio nome la fa ridere? Mi prende per burla?» domandò Renzo, sul chi va là.

«No no, si figuri. Ridevo perché mi è tornato alla mente un fatto buffo capitato a un mio amico di nome Renzo.»

La conversazione si chiuse lì. Giunto alla riva, Renzo salutò il pescatore e si diresse verso il paese di Bortolo, Almenno San Bartolomeo, a una quindicina di chilometri che percorse a passo svelto. Arrivato all’inizio dell’abitato, dove sorgeva un’osteria, si accorse di avere una gran fame. Dopo le sue vicende gli osti non godevano più della sua simpatia, ma pensò non sarebbe stato garbato presentarsi al cugino a digiuno, chiedendo subito da mangiare appena arrivato, quindi contò le monete che gli erano rimaste e si decise: avrebbe mangiato un boccone. Da bere solo acqua; di vino traditore ne aveva avuto abbastanza all’osteria della Luna Piena. Una sbronza da bastare per tutta la vita, che per poco non gli valeva un cappio al collo. Appena entrato, tutti si voltarono a guardarlo. Ormai aveva compreso che quegli sguardi curiosi erano dovuti ai suoi abiti: già arrivando in paese aveva incontrato uomini e donne vestiti in modo bizzarro, tanto che all’inizio aveva pensato di aver a che fare con gente straniera oppure con originali, poi aveva compreso che quello strano era lui visto che tutti erano abbigliati con quello stile mai visto prima. Aveva provato un’istintiva vergogna, ma la vergogna sarebbe stata molto maggiore se si fosse tolti i vestiti “scandalosi” e fosse rimasto in braghe. Cercò di far finta di nulla e si andò a sedere a una panca. Pensò che le osterie nel bergamasco erano molto diverse da quelle lombarde; nell’architettura, nella clientela e perfino nei modi dell’oste.

«Cosa le servo messere?» domandò quest’ultimo, trattenendo una risata a cui fece eco quella degli altri avventori.

«Una pagnotta e una brocca d’acqua, per favore.»

L’oste fece un inchino e se ne andò. Renzo si sentiva sempre più nervoso. Come osava quella marmaglia deriderlo? Se non avesse dovuto mantenere l’incognito gliela avrebbe fatto vedere lui, pensò carezzando il manico del suo pugnale. Quando ebbe finito il suo pane, domandò all’oste il conto.

«Non ho monete di San Marco» disse, scusandosi «però ho delle buone berlinghe».

L’oste prese le monete, le guardò con attenzione e se le mise in tasca con un sorriso enigmatico.

«Ho un’altra cortesia da chiederle» riprese Renzo «mi può indicare la casa di Bortolo Castagneri?»

«Mai sentito.»

«Strano, dovrebbe essere famoso qui. Lavora in un filatoio.»

L’oste si fece pensieroso.

«C’era un vecchio filatoio qui vicino» intervenne un signore seduto vicino «ma è in rovina ormai, è stato abbandonato molto tempo fa».

«Allora non è quello» ribatté Renzo.

«Non ce ne sono altri.»

Non ne avrebbe cavato altro, pensò il giovane. Si fece indicare la strada del filatoio, per vedere con i propri occhi, e ringraziò. Più passava il tempo e più si sentiva fuori posto. Arrivato al filatoio dovette ammettere che non era più in funzione da molto tempo; almeno mezzo secolo. Le erbacce crescevano sulle pietre diroccate e la macina giaceva in mezzo alla vegetazione come un’antichità dimenticata. Che fare adesso? L’importante, si disse, è trovarsi lontano da Milano. In qualche modo faremo, continuò cercando di consolarsi. Tornò all’osteria e domandò all’oste – non troppo felice di rivedersi comparire davanti quel tipo strano – se sapesse di qualcuno in cerca di braccia per lavorare la terra, oppure qualsiasi altro mestiere che non richiedesse di saper leggere.

«Sei fortunato» rispose l’oste dopo averci pensato un po’ sopra. «Stiamo giusto cercando uno sguattero, uno che abbia voglia di lavorare duramente.»

«Io sono un gran lavoratore, signore» ribatté prontamente Renzo, battendosi un pugno sul petto. «Non avrà a pentirsene.»

«Allora puoi iniziare subito» gli disse gettandogli uno straccio. «Ci sono dei tavoli da pulire laggiù. Per ora sei in prova, dopo ci metteremo d’accordo sul compenso.»

I divergenti sposi (seconda parte)
Di Massimo Acciai Baggiani e Renato Campinoti



Renzo, accingendosi a intraprendere questa nuova attività, cominciò a pensare seriamente che fosse possibile ciò che finora aveva solo sentito raccontare nelle novelle della sera, quando, seduti sul canto del fuoco, qualche anziano ne inventava qualcuna a beneficio dei bambini: non era raro, in quelle occasioni, che si saltasse da un’epoca ad un’altra, purchè il racconto fosse abbastanza vivace e tale da meravigliare i più piccoli. Ma ora, come era possibile che fosse capitato a lui ciò che sembrava destinato solo a folletti o streghe? Eppure, guardandosi intorno, soppesando la differenza della foggia dei vestiti di quegli avventori rispetto ai suoi, sentendosi osservato con ironia e quasi sbeffeggiato per quelle evidenti differenze perfino nelle monete che lui possedeva, rispetto a quelle maneggiate dai clienti, tutto diceva che doveva davvero essere successo qualcosa di molto, ma di molto strano. Che fare? Aveva forse un’alternativa al prendere sul serio questa situazione e stare al gioco? Era confuso, ovviamente, non si capacitava che fosse proprio toccato a lui un simile scherzo del destino. E tuttavia decise di provare a stare al gioco. Forse, si diceva, prima o poi qualcuno o qualcosa mi farà capire perché, per quale ragione è capitata proprio a me una cosa del genere.

L’osteria in cui era stato preso a lavorare, si trovava praticamente vicina al confine, per come lui se lo ricordava, tra lo stato di Milano e i territori già in possesso della Repubblica di Venezia. Da una parte gli Spagnoli, dall’altra i Veneziani. Ma si sbagliava di grosso. Cominciò a rendersene conto quando alcuni clienti, seduti ad un tavolo gli chiesero di servire loro del vino e un po’ del lesso di bovino che pareva essere la specialità della casa. Quando si avvicinò per prendere l’ordine potette sentire chiaramente uno di loro che quasi urlava: «E’ tempo che se ne vadano da Milano i crucchi. Non li vuole più nessuno questi maledetti austriaci, che stanno mettendo alla fame tutto il popolo che lavora!» I suoi compagni di tavolo scuotevano la testa in segno di assenso, ma al tempo stesso lo invitavano a parlare sottovoce di certi argomenti. Qualche spia poteva trovarsi pure lì, che era uno dei posti frequentato da molti patrioti, come dicevano quegli strani clienti. Per tutta risposta, quello che aveva parlato di Milano e degli austriaci, si alzò in piedi, si attaccò una strana coccarda al bavero di quella specie di redingote, una coccarda fatta da stoffe di tre differenti colori, bianco, rosso e verde, alzò in alto il bicchiere di vino che nel frattempo Renzo aveva servito al tavolo e, con voce ancora più forte, dichiarò: «Viva l’Italia, via lo straniero dal nostro suolo. E’ tempo di ribellarsi. A Milano stanno facendo di tutto per boicottare lo straniero. Hanno perfino smesso di fumare per non regalare tasse e soldi al governo austriaco. I soldati di quel maledetto, vecchio Radetsky stanno sfilando per la città con due, tre sigari in bocca per fare dispetto ai patrioti. Ma sta montando…il popolo non regge più. Bisogna deciderci anche noi!»

Renzo era a dir poco stupito di tutto quello che stava sentendo. Lui era ancora sconvolto da quello che gli era capitato pochi giorni prima, proprio a Milano, quando il popolo affamato aveva dato l’assalto ai forni. Stava ancora preoccupandosi di quello che aveva fatto, quando si era messo anche a lui a prendere pubblicamente la parte dei poveretti più affamati. Lui che, se avesse potuto ritrovare e sposare la sua Lucia, sapeva bene che quei tumulti erano da evitare per avere una vita tranquilla e piena di gioie familiari. Ma ora stava sentendo qualcosa di diverso. Non si parlava solo di far abbassare il prezzo del pane perché anche i poveretti ne potessero portare a casa quanto necessario per sfamare la famiglia. No, ora, a sentire quelli là, si pensava addirittura di scacciare i governanti stranieri, si parlava di Italia, mentre lui sapeva bene quanti tiranni grandi e piccoli e quanti stranieri se l’erano accaparrata! E poi c’era il Vaticano, che aveva il suo bel pezzo di regno, con Roma come capitale. Di cosa parlavano allora quelli là?

Visto che oramai l’ora della cena per gli avventori della locanda stava terminando, che alcuni degli ospiti di passaggio si stavano ritirando nelle poche camere che si trovavano al piano superiore, Renzo chiese al padrone se poteva fermarsi a fare qualche parola con quegli avventori che avevano destato in lui tanta curiosità. L’oste disse che poteva, anzi, lo incoraggiava a fare quattro chiacchere con quegli strani clienti.

«Mi dovete scusare, signori. Ma io sono stato per un lungo periodo fuori da queste terre, per lavoro e ci sono cose che non conosco bene. Potete dirmi qualcosa di più su questi austriaci, sulla situazione di Milano, dove pure, tanto tempo fa, sono stato presente e attivo», disse loro Renzo quando, chiesto permesso, si accomodò a quel tavolo con un bicchiere di vino in mano.

«Che sei forestiero si vede da come sei vestito», disse quello che era il più attempato e, forse, anche il più saggio di quel gruppetto di scalmanati, per come aveva capito Renzo. E quello continuò. «Anche se sei stato un po’ d’anni fuori, che a Milano e nel lombardo-veneto comandano gli austriaci lo saprai per forza. E’ dall’inizio del settecento, quasi un secolo e mezzo fa, che hanno preso il posto degli spagnoli. Sempre loro a comandare da queste parti. Fino a che hanno governato bene, si stava male, senza la nostra libertà ma, come diceva il popolo, Austria o Spagna purchè se magna! Ma ora non se ne può più. Questi dannati austriaci hanno messo la tassa su tutto, perfino sul fumo, come diceva lui. Sarebbe davvero l’ora, in questo marzo del 1848, che il popolo si ribellasse davvero. Ti dirò, caro amico, che penso proprio che stia per succedere. E non mi guardare con quegli occhi così preoccupati. Ora ci sono tutte le condizioni. Perfino il Papa, quel Pio IX che è stato eletto da poco, ha concesso la libertà di stampa, almeno un po’, parla di dare la costituzione al popolo da parte dei governanti. Vedessi quante ce ne sono di scritte sui muri, anche su quelli di Milano, che dicono W Pio IX. Avessi visto quali festeggiamenti ci furono quando il Papa, qualche mese fa, nominò arcivescovo della città un italiano, Carlo Bartolomeo Romilli, al posto del predecessore austriaco. La folla, in piazza Fontana, non si stancava di inneggiare a Pio IX, quando i soldati austriaci, prendendolo per un insulto, caricarono, uccisero un milanese e ne ferirono molti altri. E infine qui, in Piemonte, forse la cosa più importante, c’è un giovane Re dei Savoia, Carlo Alberto si chiama, che anche lui parla di Statuto e ascolta il grido di dolore che tanta gente italiana gli rivolge perché la aiuti a liberarsi dello straniero. Secondo me sarebbero la maggioranza quelli che disposti a fare dei Savoia i Re d’Italia, se scendessero in campo contro gli austriaci»

«Non sono d’accordo! Il popolo vuole la repubblica, come dice anche Mazzini…», si intromise quello che aveva brindato prima all’Italia e portava ancora la coccarda all’occhiello della lunga giacca.

«Io mi accontenterei di scacciare lo straniero dal suolo d’Italia, poi vediamo se si mantiene la monarchia come in Piemonte o si fa una bella Repubblica!»

Renzo, ancora timoroso per i rischi che aveva corso durante la rivolta del pane, ascoltava e sentiva nascergli dentro uno strano sentimento. Allora era possibile davvero cacciare gli stranieri dal suo paese? Doveva passare tutto quel tempo, più di due secoli, perchè qualcuno cominciasse a parlare di libertà? Ma intanto chiese: «Scusate la mia ignoranza. Ma cosa è quella coccarda che porta al bavero della giacca? Perché quei colori?»

«E’ dalla fine del settecento che i patrioti della repubblica cisalpina, sorta tra Bologna Modena e Reggio Emila, hanno adottato questi colori per la loro bandiera, che è diventata il simbolo dell’unità di d’Italia. Gli austriaci la vedono come il fumo negli occhi!»

Dunque, ancora l’Italia non era stata fatta, ma aveva già una sua bandiera. «Ne hanno fatta di strada!», venne di pensare a Renzo, ritornando col pensiero alla sua partecipazione ai moti per il pane.

«E a Milano, secondo voi, che sta succedendo?» domandò Renzo alzandosi dal tavolo intenzionato a riportare i bicchieri e il vino al banco.

«Non ti allontanare!», lo invitò quello che aveva parlato di Milano, di Pio IX e di altro e che sembrava essere quello più autorevole del gruppo. Renzo andò a posare la roba sul banco, incontrando gli occhi del padrone che, con un cenno della testa, lo invitava lui stesso a ritornare verso quel tavolo.

«Mi chiedevi di Milano», riprese a dire lo stesso di prima, che disse anche di chiamarsi Antonio Tersaghi, cugino di Giulio, un militare tra i più attivi nella cospirazione antiaustriaca, «La situazione ormai è vicinissima a esplodere in rivolta. Pensa, a Palermo a Gennaio si sono ribellati e il re Ferdinando, non uno stinco di santo, ha concesso la Costituzione, vale a dire la possibilità di non essere d’accordo con i governanti senza essere per questo messo in galera o alla forca. In Piemonte hanno concesso lo Statuto Albertino, che è un po' la stessa cosa. Anche in Toscana e nello Stato pontificio hanno concesso la Costituzione. Mi giunge notizia che perfino a Vienna si parla di Costituzione. So per certo che per domani è prevista una grande manifestazione a Milano a seguito delle notizie sulle dimissioni di Metternich. Insomma, se non ora quando? Stanno pensando di mettere in piedi centinaia di barricate e di scacciare gli stranieri. Noi siamo qui di passaggio, ma domattina proseguiamo per Milano. In un giorno o due saremo là, pronti a partecipare alla manifestazione e, se necessario, alle barricate. Sarebbe utile la presenza di un uomo giovane e vigoroso come te. Te lo dico ufficialmente: se hai un po' di spirito patriottico nel cuore, vieni con noi domattina»

Ora Renzo è confuso davvero. Un invito a partecipare alla lotta per scacciare gli stranieri da Milano! Altro che rivolta del pane! Non sa cosa rispondere a quell’uomo così informato e autorevole. Anche gli altri sembrano persone per bene, e infervorati di patriottismo. Sente dentro di sè qualcosa che lo spinge ad accettare quella proposta. Non avrebbe mai immaginato di pensare all’Italia come ad una possibilità reale, a qualcosa che, come i cittadini di Francia, Spagna, Inghilterra, facesse sentire fratelli e “italiani” tutti quelli che, come lui, si erano fatti dividere da quegli Stati governati dagli stranieri o in mano a famiglie chiuse nei loro domini sempre più anacronistici. Ancora Renzo non è convinto fino in fondo. Pesa sempre sul suo animo quel proposito di ritrovare Lucia, la madre Agnese, forse perfino fra Cristoforo, sposarsi e fare una vita tranquilla, che non gli permette di accettare da subito l’invito rivoltogli da quel Tersaghi. Ma non vuole neppure rispondere subito di no.

«Dovete capire che per me, fuori da tanto tempo, quello che mi dite è una novità assoluta, che tuttavia mi affascina. Lasciatemi pensare ancora qualche ora. Ditemi quando, domattina, intendete riprendere il cammino. Se mi vedrete sarò dei vostri. Altrimenti…»

«Altrimenti cosa? Vorreste rimanere ancora sotto la schiavitù di questi austriaci ignoranti, che non sanno neppure chi sia stato Raffaello o Michelangelo, per non parlare di Leonardo, il grande Bernini…decidetevi, date retta a me». Quello che aveva parlato era uno dei più giovani della compagnia, che portava con sé alcuni libri, tra cui uno di un certo Manzoni, di cui Renzo non riuscì a vedere il titolo.

«Non lo dobbiamo forzare», intervenne di nuovo quello di prima, «È bene che ci pensi. Non lo invitiamo a fare una passeggiata, l’ha capito. Se domattina alle sette ti troviamo pronto, vieni con noi, diversamente continuerai a fare la tua vita»

Con questo Renzo aspettò che quegli uomini si alzassero per rimettere in ordine il tavolo e tornare verso il banco. Avrebbe voluto avere qualcuno di sua fiducia con cui confidarsi e, magari, farsi consigliare quello che riteneva più giusto fare. In fin dei conti, lo sapeva, avrebbe fatto ciò che il cuore gli suggeriva.

Il padrone vide che si era rabbuiato in volto ed immerso nei suoi pensieri. Decise di metterci del suo.

«Lo so che non dovrei metterci bocca, sono faccende tue» iniziò Adamo, come disse di chiamarsi, «ma mi sembri un giovane in gamba, onesto, che vorrei tanto tu fossi dalla parte dei patrioti, che stanno crescendo di numero giorno per giorno. Anch’io, sai, la penso come loro», disse accennando al tavolo dove erano seduti fino a poco prima. «Lo sai che le rivolte sono sempre pericolose. Ci si può rimettere perfino la vita e, come minimo, se non riescono a sconfiggere il tiranno, finisci per farti qualche anno di galera. Ma se tutti si fanno prendere dalla paura, finisce che si rimane sotto lo straniero in eterno! Cosa credi, sono giorni e giorni che sto discutendo con mia moglie che non vorrebbe che mi muovessi da qui. Ma domattina io parto con loro per Milano. Se vieni ti farai comunque una bella esperienza. Non è necessario che tu imbracci subito un fucile e ti butti sulle barricate, se le alzano davvero. Ma intanto avrai modo di conoscere di che pasta è fatta la gente che vuole ribellarsi al gioco straniero, potrai parlare con loro. Non ci sono solo artigiani e gente del popolo. Perfino nobili, gente di famiglie facoltose che non sopportano più l’idea che la nostra Italia non diventi una nazione come le altre, con un suo Re o Presidente che sia, una sua Costituzione, una sua bandiera e, soprattutto, una sua dignità che nessun esercito straniero può calpestare a suo piacimento come è avvenuto finora. Se mi dici di si, domattina alle sei ti sveglio, facciamo una bella colazione e aspettiamo gli altri per partire insieme»

Renzo guardò quell’uomo negli occhi. Si accorse di non aver incontrato, finora, gente con ideali e valori così alti come lui e gli altri del tavolo. Neppure padre Cristoforo, uomo benedetto, andava oltre un’idea di giustizia cristiana che però, non si sposava con un sentimento di riscatto morale e patriottico come quello di Adamo. Ascoltò ancora un attimo il battito del suo cuore: non aveva più dubbi. Scosse con convinzione la testa in segno di assenso, si fece consegnare le chiavi di una delle camere al piano di sopra e salutò con convinzione Adamo.

«Una sola cosa» disse prima di inforcare le scale «Domattina per strada mi dovresti dare qualche informazione in più sulla situazione della nostra Italia. Sai, sono stato via per tanto tempo davvero»



Arrivati all’Adda verso mezzogiorno del 17 marzo del 1848 e attraversata in poco tempo su di una imbarcazione che faceva la spola, il gruppo decise che era ora di mangiare qualcosa, fermandosi a poche decine di metri dal fiume e tirando fuori quanto preparato dall’oste prima di partire. Fu quella l’occasione per Renzo di essere aggiornato sulla nuova geografia politica del nord Italia, col Regno Lombardo Veneto di cui era capitale Milano, in mano agli austriaci, col Regno di Sardegna, in mano ai Savoia, col re Carlo Alberto orientato a favorire la cacciata degli austrici dall’Italia, comprendente il Piemonte ( è Torino la capitale del Regno), la Valle d’Aosta, la Savoia, Nizza, Liguria e altre realtà minori, compresa l’isola di Capraia. Inoltre a Venezia, proprio in quei giorni, stava montando la rivolta contro gli austriaci, guidati da un certo Manin. «Come vedi, caro Renzo, se Milano riuscisse a liberarsi dagli oppressori, ci sarebbero buone probabilità di

lavorare per una prima riunificazione di questa parte d’Italia. Per il resto è tutto da vedere».

Renzo era sempre più curioso di vedere cosa stava davvero succedendo a Milano e se era possibile che gli stranieri fossero definitivamente cacciati dal suolo italiano. Lui stesso si meravigliava di pensare da “italiano”, cosa che difficilmente avrebbe potuto fare se fosse rimasto nel suo secolo.

La sera si fermarono a dormire in una locanda nei pressi di quella della Luna Piena, dove Renzo si era fermato dopo la fuga da Milano a seguito dei fatti dell’assalto ai forni. Dopo una frugale cena si ritirano a dormire per ripartire la mattina sul presto alla volta di Milano, dove arrivarono che ormai faceva buio, la sera del 18 Marzo, quando già la città era in rivolta contro gli austriaci, in tutte le strade stavano sorgendo barricate, i selciati venivano divelti e cosparsi di vetri rotti per impedire l’assalto della cavalleria.

Tersaghi chiese notizie di suo cugino Giulio. Erano capitati nei pressi di una barricata eretta vicino a porta Tosa e dove gli austriaci erano stati respinti un paio di volte. L’uomo che parlò con Tersaghi doveva essere uno dei comandanti, almeno in quella zona e appena sentì che il nostro capo era imparentato con uno di quelli che tiravano le fila della rivolta, non si fece scrupoli e diede ordine ad uno dei suoi di procurarci un’arma per combattere. Ad alcuni toccò un fucile sottratto all’esercito nemico. A Renzo e all’altro giovane fu dato un fucile vecchiotto, che doveva risalire almeno alle guerre napoleoniche. «Purtroppo non abbiamo abbastanza armi. Chi se lo aspettava che arrivassero praticamente tutti i milanesi a combattere sulle loro barricate. Così abbiamo deciso di prendere un po' di armi in prestito dai musei, con le poche pallottole rimaste a disposizione. Fatene buon uso, mi raccomando!». Con queste esortazioni l’uomo addetto ai rifornimenti indicò loro quale poteva essere la postazione migliore per sparare sul nemico, più o meno a metà della barricata, dove c’era uno spazio vuoto da cui si vedevano arrivare i soldati austriaci, soprattutto gli ussari di Radetzky. «Ma state attenti a non scoprirvi e farvi beccare da quegli assassini».

Renzo e il giovane, che si chiamava Ridolfo, si trovarono così a fare insieme il battesimo del fuoco, appostati insieme su una barricata milanese. Adamo, prima di dirigersi verso un altro punto della barricata, ricordò a Renzo che non era obbligatorio che anche lui si armasse e mettesse a rischio la sua incolumità. Ma Renzo, di fronte a quella vera e propria ribellione di popolo, rispose che se la sentiva benissimo di combattere con quella gente per liberare Milano dagli stranieri.

Mentre aspettavano il ritorno degli austriaci, riparati alla meglio da un cassettone usato per tenere insieme i pezzi della barricata, Renzo e Ridolfo ebbero modo di scambiarsi un po' di parole. Renzo era curioso di sapere di cosa parlava il libro che il suo compagno di lotta aveva con sé la sera che si sono conosciuti all’osteria. Ridolfo rispose che si trattava de I promessi sposi, un romanzo storico ambientato a metà del seicento, quando ancora Milano era in mano agli spagnoli e dove a due giovani viene impedito di sposarsi

da un uomo prepotente e potente perchè voleva lui la sposa. Renzo, che trovava curioso come quella storia fosse molto simile alla sua, chiese al suo giovane compagno come finiva quel libro e se era stato di suo gradimento. «La fine, come era inevitabile vede i due giovani che si sposano e, con un po' di fortuna, hanno una vita agiata e piena di figli. Curiosamente, lo sposo si chiama Renzo come te. Il libro è indubbiamente ben scritto, molto documentato storicamente e anche affascinante in certe parti, come nella descrizione della peste che colpì Milano. A me, tuttavia, ha lasciato un po' di delusione per come conduce le vicende finali. In un mondo come quello, tutto pieno di ingiustizie e soprusi, dove la legge è sempre dalla parte dei potenti, basta che un cattivissimo si converta al cristianesimo e un altro venga portato via dalla peste, che tutto divenga facile per i nostri protagonisti, come se il dominio straniero non ci fosse più, i soprusi e le angherie fossero sparite dalla società di quel tempo»

«Sei sicuro che in quel periodo a Milano ci fosse la peste?» Domandò un po’ incredulo Renzo. «Certo che sono sicuro. E’ l’unica cosa certa di tutti gli avvenimenti che racconta lo scrittore». Renzo decise di soprassedere e chiese: «E lo sposo, quello che si chiama come me, non sente il bisogno di ribellarsi a certe angherie? Come vive la scelta di sposarsi e pensare solo per sé?»

«E’ questa la cosa che mi ha lasciato più perplesso di tutto il romanzo che, lo ripeto, è un grande romanzo storico, sicuramente il migliore tra quelli scritti finora. Tuttavia colpisce che questo Renzo prima viva l’ingiustizia di cui è vittima con uno spirito combattivo. Arriva perfino a partecipare attivamente alla rivolta dei forni quando l’aumento del prezzo del pane scatena la rabbia dei lavoratori che, con bassissimi salari, non riescono più a comprarne quanto necessario per sfamare la famiglia. Poi Renzo quando finalmente può sposare la sua Lucia, declama una specie di atto di penitenza per essersi imbarcato in una, sacrosanta secondo me, battaglia a favore dei più deboli. Dice proprio così: “Ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza…”. Capisco che in quel tempo non c’erano i segni di rivolta e di richiesta di nuovi diritti come invece oggi ci sono in tante parti d’Italia e del mondo. Ma non mi pare il migliore dei messaggi quello che, proprio in questo periodo, invita i bravi giovani a stare attenti a non partecipare ai tumulti e a ritirarsi esclusivamente a vita privata. Ci penserà la Provvidenza a ripagarli di un tale, virtuoso, atteggiamento»

In quel momento un paio di pallottole fischiarono vicino ai due giovani, oltrepassando la barricata proprio nel buco lasciato scoperto dalle masserizie. Nel frattempo, in basso, si fece vedere uno dei massimi comandanti della rivolta, che tutti riconobbero come Carlo Cattaneo, il quale, a voce altissima, disse di stare pronti che gli ussari stavano tornado in massa e che, se si fosse combattuto con intelligenza, senza inutili eroismi, si sarebbe potuto respingerli e impadronirsi di quella importante porta della città, Per questo, disse che aveva fatto arrivare dei rinforzi che, appena iniziata la battaglia, avrebbero avviato una serie di scariche dall’alto verso gli austriaci.

I combattimenti andarono avanti fino a notte fonda, ma alla fine gli austriaci furono costretti a ritirarsi nella zona del castello e a lasciare la porta incustodita in mano agli insorti. Ci fu perfino un momento di festa, mentre venivano medicati i pochi feriti e tra i combattenti cresceva la speranza di riuscire a scacciare davvero lo straniero.

Prima di essere sostituiti nel turno da nuovi arrivati, Renzo e Ridolfo ripresero a parlare di quel libro. «Sono molti anni che è stato pubblicato?» domandò Renzo.

«Non moltissimi. Questa edizione porta la data del 1840 e credo sia quella più completa e recente. Come vedi erano anni, quelli in cui il romanzo è stato scritto, in cui già serpeggiava l’idea di rivolta. Mazzini, già nel 1831, fondò a Marsiglia la Giovane Italia a cui mi onoro di appartenere. In tante parti d’Europa si parla di rivolte e si prepara il terreno per le conquiste di quest’anno»

«Vive a Milano l’autore di codesto romanzo? Che ne pensa di queste battaglie?»

«Si, vive sempre a Milano», rispose Ridolfo all’amico Renzo, «E’ un vero patriota. Mi dicono sia molto malato in questo periodo. I patrioti, quando è iniziata la rivolta, sono andati alla sua casa per chiedergli di essere dei nostri, con tutto il suo prestigio. Ma la moglie non ha voluto che entrassero in camera sua. “Dice”, riferì la moglie, “che facciamo bene a scacciare gli austriaci, che ci aiuterà”. Poi Manzoni si è affacciato sulla piazzetta che si trovava davanti casa, con accanto due servi che reggevano i lumi, e ha gridato: “Viva! Viva l’Italia” e ha promesso che avrebbe fatto stampare alcune sue poesie inedite per donare il ricavato a favore dei rivoltosi. Lui, si sapeva, era favorevole ad una annessione, in caso di vittoria, del Lombardo Veneto al Regno dei Savoia. Un patriota moderato, insomma»

Mentre si accingevano a smontare dalla barricata, Renzo e il giovane amico vengono avvisati, dagli urli del comandante da sotto la barricata, che quel matto del Generale Radetzky aveva imposto ai suoi uomini di tornare all’attacco per la terza volta di quella barricata. I patrioti non furono presi alla sprovvista perché un paio di bambinetti, che i milanesi chiavano i martinitt, ovvero gli orfani o bambini abbandonati ricoverati nell’oratorio di San Martino e che i patrioti utilizzavano per trasmettere velocemente le comunicazioni da una parte all’altra della città in rivolta, visti gli ussari dirigersi di nuovo verso porta nuova si misero a correre per avvertire il comandante.

Ancora una volta gli austriaci trovarono l’accoglienza che si meritavano e, dopo un po’ di perdite, fecero di nuovo dietro front. Purtroppo per Renzo, proprio mentre la breve scaramuccia stava per terminare, una pallottola nemica gli sfiorò il lato sinistro della faccia, inducendolo a un brusco movimento e a cadere dalla barricata, battendo con forza la testa sul selciato e perdendo i sensi.



Quando Renzo si risveglia, si guarda intorno. Dove è la barricata? Dove sono Adamo, Ridolfo e gli altri? Dov’è quella donna che, mentre combattevano contro gli ussari, in una breve pausa per ricaricare quei vecchi fucili, gli aveva confessato che era vedova, che era voluta esserci lì a combattere perché non voleva che suo figlio di dieci anni fosse costretto a vivere in un paese senza libertà, dove, come capitava a lei, nessuno le riconosceva un sussidio per la morte di un marito schiacciato dal carro del padrone dei terreni. Erano tutti spariti e intorno a sé Renzo vedeva solo una grande desolazione. Poi, in fondo al vicolo dove si trovava, sentì il tintinnio di un campanello e alcuni uomini incappucciati, che si erano tolti il cappuccio dalla faccia, si fermavano a tutte le porte, entravano e tornavano fuori con un corpo, ora maschile, ora femminile, seminudo perché gli abiti erano appestati, e venivano così scaraventati sopra il carro già pieno di cadaveri. Ora Renzo è davvero sconcertato. Che gli è successo? Sente un certo dolore alla testa, ma non si capacita di ciò che ha visto, delle persone che ha incontrato in quella Milano in piena lotta contro gli stranieri. Che sia svenuto qui a Milano, dove si trova ora, e abbia immaginato tutto quello che gli è successo? E cosa sono tutte queste morti, questo strazio che gli tocca di vedere? «Allora siamo davvero nel mezzo della peggiore peste che mai sia capitata da queste parti? Perché è arrivata decimare così la popolazione, da dover trasportare i morti seminudi su un carretto?» Sono le domande che Renzo rivolge ad un uomo che, con un abito scuro a forma di saio e col cappuccio gettato all’indietro, sta dirigendosi verso gli altri che trasportano il carro inguardabile di quei poveri morti appestati. «Se la peste è arrivata a questo punto, lo si deve a quei governanti e a quei popolani che non hanno voluto vedere di cosa si trattava fino a pochi giorni fa. Pensi che si voleva far credere che fosse una semplice eruzione della pelle, forse un malanno dell’intestino o del fegato. Così, invece di impedire i contatti, di isolare gli ammalati, si è lasciato che tutto continuasse come prima, favorendo il dilagare della peste. Pensi che anche ora c’è chi va dicendo che la peste è dovuto a certi personaggi che, con un liquido particolare, la trasmettono loro alle persone: gli untori li chiamano e scagliano contro di loro la rabbia della gente. Così si somma disgrazia a disgrazia, terrore a terrore. Noi ci chiamano monatti perché, guariti dalla pestilenza o carcerati con lunghe pene detentive, siamo incaricati di portare i malati al Lazzeretto e i morti appestati nelle fosse comuni a bruciare.»

Renzo chiese a quell’uomo cosa poteva essere un gonfiore che si sentiva sul lato sinistra della vita. Quello gli diede un’occhiata e gli disse che era un uomo fortunato, perché probabilmente aveva preso la peste ma la stava definitivamente superando.

«Quindi sono diventato immune dal contagio?» Alla risposta affermativa di quel monatto Renzo domandò se poteva recarsi senza rischi al Lazzeretto nel caso, come immaginava, che la sua fidanzata non si trovasse nella sua abitazione e non risultasse ancora stroncata dalla peste. «Voi siete tra le poche persone che possono andare al Lazzeretto senza alcun rischio. Ma ve lo sconsiglio. E’ talmente grande lo strazio di vedere soffrire così tanta gente, e morire fra spasmi e dolori indicibili. Comunque fate come credete.» A questo punto il monatto raggiunse i suoi colleghi che lo stavano chiamando ripetutamente e Renzo si diresse alla ricerca di Lucia.

Trovata vuota l’abitazione della fidanzata, decise che l’ultima speranza di trovarla viva era al Lazzeretto. Poteva darsi che la sua fibra giovane e robusta facesse lo stesso effetto che aveva fatto a lui, cioè di guarire da quella brutta pandemia. In quel caso Renzo era convinto che sarebbe riuscito facilmente a convincere Lucia a superare quell’assurdo voto di castità che aveva fatto quando era stata presa prigioniera da quel bandito, che poi si era pentito dei misfatti realizzati in tanti anni di brigantaggio.

Mano a mano che si avvicinava al Lazzeretto, Renzo ripensava a ciò che aveva visto e sentito nella Milano che si ribellava allo straniero. Sogno o non sogno, qualcosa quelle vicende avevano scavato nel profondo dell’animo suo. Il senso di ribellione a un mondo fatto di soprusi e della legge del più forte, la dignità di chiamarsi italiano e impedire agli stranieri di calpestare impunemente il suolo patrio, quando di passaggio, di imporre tasse e balzelli quando governavano intere regioni d’Italia. Rivedeva l’ardore e la speranza negli occhi di quei compagni di lotta sulle barricate, quelle cose che il giovane Ridolfo gli aveva detto a proposito del libro e dell’autore. Avrebbe desiderato parlare più a lungo con quella donna vedova che aveva trovato il coraggio di fare come gli uomini, sentendosi perfettamente a suo agio sulle barricate.

Non sapeva ancora se avrebbe incontrato, ancora via, Lucia. Lo sperava ardentemente, ma di una cosa era sicuro. Non avrebbe detto a lei le stesse cose che il giovane amico le aveva letto nel libro di quel Manzoni. Certo, avrebbe dovuto lavorare sodo per sfamare Lucia e i figli che fossero venuti. Ma si sarebbe impegnato anche a trovare il modo di imparare a scrivere e leggere per sapere cosa succedeva nel mondo e confrontarsi con quelli che lo volevano cambiare, il mondo. Se poi fosse capitato di organizzare qualcosa per combattere almeno qualcuna delle ingiustizie che lui stesso aveva dovuto patire, non si sarebbe certamente tirato indietro.

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