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01 marzo 2021

Renato Campinoti - Cesare Manetti una vita di lotta al fascismo

Era l’inizio di Aprile del 1945. I tedeschi erano ormai in ritirata sotto la pressione congiunta delle truppe alleate e della lotta partigiana. Cesare Manetti, in carcere dal lontano Settembre del 1936, viene finalmente liberato, insieme ai suoi compagni di prigione, dal carcere di Saluzzo, ancora di fatto sotto il comando dei Tedeschi. Col rischio di essere deportati nei campi di concentramento in Germania, come era avvenuto già per i detenuti politici ancora in mano ai nazisti, i carcerati, su suggerimento dello stesso Manetti, convincono il direttore a metterli in contatto con i partigiani della 181 esima brigata Garibaldi i quali, con un’azione coraggiosa, all’una di notte, liberano i detenuti e, dopo una marcia di sette ore, li portano sul Monte Bronta al loro accampamento.

Manetti, nel lungo e faticoso tragitto, col fisico ormai minato dalla tubercolosi, si chiede perché solo ora e solo grazie ai partigiani, è riuscito ad uscire dal carcere, quando, dopo la caduta del fascismo e l’8 Settembre, molti prigionieri politici erano stati liberati.


Quando nacqui, a Castelfiorentino, nel 1901, da una famiglia di paysan pouvre, contadini poveri, come scrissi nell’autobiografia al mio ingresso nella scuola Zapata a Mosca nel 1928, non avrei mai pensato di lasciare il mio paesello, dove pure non vivevo nell’agio, ma avevo una bella famiglia e i miei amici. Ero così innamorato già allora degli studi che, non avendo i mezzi, avevo pensato di iscrivermi al seminario per essere sostenuto in questa passione. Poi, lasciatolo presto, frequentai con profitto le scuole elementari e professionali e trovai lavoro come operai meccanico. Cominciai a frequentare il sindacato e, ancora giovinetto, divenni segretario della sezione giovanile del Partito Socialista e ricordo con quanta convinzione mi adoperai contro la guerra del ’15-’18. Le incertezze dei socialisti nelle prime lotte degli operai e contro il fascismo mi indussero poi, nel ’21, ad aderire al PCI. Quante discussioni, e quante illusioni con i compagni come Eletto Fontanelli e gli altri dirigenti che venivano dall’ala sinistra del Partito Socialista come me e che ci aspettavamo che, dopo la rivoluzione bolscevica, il Socialismo sarebbe arrivato anche da noi in poco tempo. A ripensarci dopo tanti anni, sembra impossibile che anche in Valdelsa, nel giro di così poco tempo, si fosse passati da quella che sembrava la vigilia dell’avvento del socialismo, alla distruzione di tutto ciò che avevamo costruito, (dalle case del popolo, alle commissioni operaie, alle conquiste d’orario e salariali con le fabbriche nelle mani degli operai) con una repressione fascista quanto mai brutale, con alla testa personaggi di diretta espressione dei ceti agrari più conservatori come il Marchese Perrone Compagni che inaugurò la sezione del Fascio a Castelfiorentino nell’Aprile del 1921. Fui in prima fila nella lotta degli operai e nella occupazione delle fabbriche. Ma la nascita del fascismo e la sua cruenta lotta contro di noi mi costrinsero prima a perdere il posto di lavoro e poi ad emigrare in Francia nel Febbraio del 1923.

A Lione, dove inizialmente mi fermai, dovetti restare alcuni mesi lontano dall’attività politica perché proprio allora contrassi la tubercolosi polmonare che mi accompagnerà per tutta la vita. Poi, dalla metà del 1923, entrai in contatto con i compagni emigrati, combattei la linea settaria di Bordiga e, già al Congresso di Lione del 1924 del PCI, assunsi l’incarico di responsabile di settore e mi trasferii a Parigi. Cominciò già allora la frequentazione col compagno Togliatti, un vero capo del comunismo mondiale, che si svilupperà ulteriormente al mio ritorno da Mosca. Non posso dimenticare, tuttavia, quante difficoltà dovetti superare per ambientarmi in quella nuova situazione. Prima di tutto per il frequente acutizzarsi della malattia ai polmoni che mi costringeva a rimanere giornate intere a letto o, addirittura, ad essere ricoverato in ospedale. Ma pesava anche, i primi tempi, una brutta sensazione di estraniamento e di allontanamento dalle nostre realtà e dalle famiglie, come se avessimo perduto non una battaglia, ma la guerra contro i nostri nemici. Ricordo quello che un grande compagno come Ruggero Grieco scrisse nel 1924 su Lo Stato Operaio, la rivista del PCI, parlando dell’esigenza di superare ‘la psicologia della disfatta’, ricercando le cause della sconfitta e ricominciando, perciò, a combattere. Cosa che anch’io feci, grazie al fatto di incontrare tanti, autorevoli compagni e ai nuovi incarichi, soprattutto nella stampa e nella distribuzione della stessa verso i nostri compagni emigrati, che mi furono affidati.

Giunti all’accampamento dei partigiani Cesare constata felicemente che convivono nello stesso territorio sia la Brigata Garibaldi che il Gruppo di Giustizia e Libertà. Se ne sono fatti di passi avanti dalle chiusure settarie che hanno permeato, a più riprese, le vicende del movimento operaio. Ancora vestito da carcerato, sarà assegnata anche a lui una funzione nel campo, meno pesante degli altri a causa del suo fisico indebolito dalla malattia. Può tuttavia partecipare ai turni di guardia nella piccola baita non molto distante dall’accampamento, dando così il proprio contributo alla lotta partigiana.

E’ durante una delle prime sere che è di guardia insieme ad altri compagni che Cesare sente maggiormente la mancanza della famiglia e dei suoi cari, ai quali aveva scritto lettere accorate quando, dopo la caduta del fascismo e l’insediamento del Governo Badoglio, la liberazione dei prigionieri politici avveniva con una lentezza esasperante ed egli, malato com’era e rimasto senza molti dei compagni che erano stati liberati, subiva momenti di vero e proprio scoramento. Giunse perfino, nel Dicembre del 1943, bel oltre la caduta del fascismo, internato nel carcere di Portolongone, a scrivere una lettera al Ministero di Grazia e Giustizia: “Il sottoscritto, essendo affetto, oltre che da tubercolosi polmonare bilaterale…da enterocolite assai avanzata…domanda di essere trasferito al carcere di San Gimignano”. Sperava così di essere più vicino ai suoi familiari e di poter essere accudito anche con un’alimentazione adeguata. Ma anche questa domanda fu respinta dal Ministro. E non era più un Ministro fascista!

Il turno di guardia durava praticamente fino al mattino e il tempo di ricordare pezzi importanti della sua vita non mancava.

A Parigi, negli ambienti dell’emigrazione politica, la speranza che il delitto Matteotti, nel 1924, mettesse in crisi il fascismo, durò solo poche settimane. Mussolini, purtroppo, mantenne saldamente il potere e a noi non restò che combattere su un duplice fronte: verso gli immigrati residenti in Francia per orientarli sulle questioni politiche principali, per sconfiggere il settarismo che Bordiga aveva lasciato tra le fila dello stesso PCI, al tempo stesso ci ponevamo il problema di non sganciarci del tutto dalla realtà italiana dove, prima o poi, saremmo dovuti ritornare. Nacquero in quel periodo diversi giornalini in lingua italiana rivolti verso gli immigrati, su alcuni dei quali ebbi modo di intervenire. La cosa mi appassionava particolarmente e presto entrai a far parte del comitato nazionale della stampa. E’ in questo periodo che iniziai a scrivere sul giusto orientamento da tenere verso gli altri immigrati politici e propugnavo una politica unitaria, anche se ancora sarà troppo presto per vedere sorgere quell’unità d’azione che, proprio in Francia, si realizzerà col Fronte unitario della sinistra. Ricordo anche la soddisfazione che provai quando, grazie al buon lavoro di pubblicista, fui nominato nel comitato di redazione del ‘Il Fronte Antifascista’, organo dei CPA, cartello unitario degli immigrati antifascisti. E’ in questo periodo che, anche all’interno del PCI, si sviluppa un forte dibattito su come interpretare il ruolo del Partito come avanguardia della classe operaia. Le parole più chiare furono scritte da Antonio Gramsci nelle tesi che furono approvate al Congresso di Lione dove si affermava con chiarezza che il ruolo di guida del Partito verso la classe operaia non poteva avvenire per una sorta di imposizione esterna, da una ‘proclamazione’ a parole del Partito medesimo, ma per la sua capacità di collegarsi effettivamente con settori della classe operaia e riuscire così ad imprimere ad essa una giusta direzione di lotta. Era questa la linea politica che cercavo di trasmettere attraverso il lavoro di pubblicista con le riviste che ho richiamato. Al tempo stesso dedicavo tutto il restante del tempo libero da queste attività e da quelle più propriamente politiche nel Partito, allo studio dei classici del marxismo e del pensiero di Lenin. In queste cose, mi dicevano tutti, avevo una particolare predisposizione e successe addirittura che facessi un po' di lezione anche a qualche compagno più sprovveduto di me in materia di studio. Forse fu anche per questo che Togliatti mi indicò tra coloro da mandare alla scuola della terza Internazionale di Mosca a perfezionare i miei studi e per diventare, definitivamente, un rivoluzionario di professione. Cosa che, dopo varie peripezie e impegni nella difficile vita degli immigrati politici, si concretizzò nel dicembre del 1928. La scuola era in lingua francese, con cui avevo ormai una consuetudine come seconda lingua, era denominata Zapata e forgiava i dirigenti del movimento comunista internazionale. Era il massimo di ciò che mi potessi aspettare, soprattutto per chi, come me, era convinto che lì si trovasse ‘la patria del proletariato internazionale’, come dichiarò, di lì ad un anno, lo stesso sesto Congresso dell’Internazionale Comunista.

Durante quella notte di guardia nella baita vicino all’accampamento, Cesare Manetti è insieme a Dionisio Greco, Ercole Bazzoni, il comandante della 181 esima Brigata Garibaldi, Otto Ferrari, quello che, con i suoi, era andato pochi giorni primi a liberarli, ed altri. E’ una notte strana. Si avvertono rumori che nessuno riesce a identificare, se di animali o di soldati. Fatto sta che nessuno riesce a chiudere occhio. Si parla della pesante sconfitta inflitta ai nemici dall’esercito alleato e dall’azione partigiana. Ma si è anche consapevoli di trovarsi sulla via di fuga delle residue divisioni tedesche e del pericolo che tutto questo può rappresentare per la loro Brigata e per loro stessi. E si torna a riflettere sulle proprie aspettative.

Dopo un paio di settimane in quarantena in un albergo di Mosca, durante il quale venivano verificate le informazioni sui nuovi arrivati, entrai finalmente nella Scuola dell’Internazionale comunista, con molta commozione e con la determinazione di impossessarmi di tutte le conoscenze necessarie alla battaglia mondiale in corso. Purtroppo anche lì il male che mi corrodeva i polmoni tornò ad assalirmi e, fortunatamente, ricevetti adeguate cure negli ospedali moscoviti. Riuscii comunque ad impossessarmi delle conoscenze necessarie per divulgare sui giornali dell’emigrazione antifascista in Francia, la conoscenza dei Piani Quinquennali che venivano elaborati in quel periodo, sotto la direzione ferrea di Stalin. Venimmo a sapere dei drammatici scontri all’interno del Partico Comunista dell’Unione Sovietica, fino alla fucilazione dei propugnatori di una linea politica di accondiscendenza verso i contadini dissidenti e sostenitori di una politica economica più legata al mercato. Ricordo con quanta convinzione, grazie anche alle vere e proprie lezioni che ci vennero fatte dai sostenitori di Stalin su tali vicende, parteggiavamo apertamente per le decisioni della maggioranza del Partito sovietico. Anche se qualche dubbio, devo dire, sul fatto che si dovesse arrivare alla soppressione fisica di quei personaggi, ce lo avevamo. Il più dubbioso di tutti era un compagno di Empoli, Mario Fabiani, che se ne stava spesso pensoso per conto suo, consapevole che non si potesse esporsi affatto in quelle condizioni. Sapemmo anche della fuga del traditore Trotsky, che poi, come venni a conoscenza quando ero già in carcere, fu ucciso a picconate nel 1940 in Messico. L’atmosfera di sospetti e controlli era piuttosto pesante. Nessuno si fidava dell’altro. Ricordo che una volta, quando Togliatti mi invitò all’Hotel Lux dove alloggiava a Mosca, prima di chiedermi cosa pensavo della situazione politica in Unione Sovietica, mi fece avvicinare al rubinetto dell’acqua, che aprì facendola scorrere e coprendo, col rumore dello scroscio, le parole che, a voce sommessa, ebbi modo di dirgli. Ricordo come lui si raccomandò di avere presente sempre che, per il bene del nostro Partito, non potevamo mai esprimere posizioni critiche su ciò che di molto giusto (queste parole le pronunciò a voce più alta) il compagno Stalin stava facendo per il bene del Comunismo nel mondo.

Comunque io mi distinsi abbastanza negli studi alla Scuola Zapata e, soprattutto, trovai soddisfazione nello scrivere, come ho detto, dei successi che l’industrializzazione forzata stava avendo in Unione Sovietica, nonostante le resistenze di alcuni settori dei contadini che non volevano perdere la proprietà della terra.

In quel periodo il congresso dell’Internazionale, sotto la direzione del PCUS, proclamò la svolta, ovvero l’esigenza che ogni Partito Comunista si attrezzasse, nel proprio Paese per una lotta accanita contro i regimo borghesi. Per noi comunisti italiani significava riprendere, clandestinamente, la via del ritorno in Italia a tentare di far sollevare le masse contro il regime fascista. Non vedevo l’ora di essere tra quelli che tornavano a combattere. Cosa che, conclusa nel 1932 l’esperienza della scuola, chiesi di fare appena rientrato in Francia.

La notte di vigilanza fu molto agitata per tutti. Il comandante Ferrari, appena arrivò l’alba, propose a tutti di fare un impegnativo rastrellamento in tutta la zona intorno alla baita, con la convinzione che potessero nascondersi i tedeschi da qualche parte. Ma il rastrellamento non dette nessun esito. Così tutti e si predisposero ad affrontare ancora una giornata di vigilanza, in attesa delle possibili insidie della notte. Lo stesso comandante, viste le condizioni non buone di Manetti, gli suggerì di ritornare all’accampamento, che lì sarebbero rimasti gli altri con lui a svolgere il turno di guardia. Ma Cesare rispose che non intendeva derogare da questo impegno, dopo la liberazione che loro, e solo loro, avevano portato a termine dal carcere dove i fascisti l’avevano rinchiuso. In attesa della sera, a Cesare tornarono in mente le vicende che l’avevano portato alla cattura da parte della polizia fascista, al processo farsa che lo condannò a ben 18 anni di carcere, alle vicende di quegli anni importanti tra Parigi e l’Italia, tra Togliatti e i compagni delle fabbriche del Nord d’Italia.

Quando feci ritorno a Parigi, entrai subito in contatto col gruppo dirigente del PCI. Fabiani, Scoccimarro, Colombi, Di Vittorio, Pajetta Gian Carlo, erano tutti, in vario modo, impegnati alla costruzione e al rafforzamento del Partito. Molti di loro, chi prima chi dopo, furono catturati dalla polizia fascista quando tenteranno di rimettere piede in Italia. Io fui chiamato dal compagno Togliatti a collaborare strettamente con lui nell’opera di ricostruzione dell’iniziativa politica e nella elaborazione della giusta linea da parte dei compagni. Dopo essere entrato a far parte del Comitato Centrale del Partito, dopo poco entrai nell’Ufficio politico e quindi nella segreteria del PCI, come responsabile dell’organizzazione. Per questa ragione ero tra i pochi, se non l’unico, che conosceva dove si trovava l’abitazione di Togliatti e, con tutte le precauzioni della vita clandestina che eravamo costretti a fare, mi ci recavo spesso a discutere con lui le cose da fare, a preparare documenti, materiale da stampare da consegnare ai “corrieri”, come chiamavamo i compagni che si inviavano in Italia a prendere contatto con gli operai delle fabbriche italiane, del Nord soprattutto. La familiarità col compagno Togliatti (Ercoli) era tale che fu lui a darmi il nome di “Pollo”, che avrei usato come copertura. L’impegno principale cui si dedicò Togliatti, fu quello di spiegare bene ai nostri compagni quale era la realtà della presenza fascista nella vita sociale e nelle grandi organizzazioni di massa. Io ricordo le “Lezioni sul Fascismo” che Togliatti tenne a Mosca ai quadri della scuola dell’Internazionale e che noi pubblicammo nei nostri organi, Stato Operaio in particolare, dove con una grande lucidità il segretario spiegava come dovevamo prendere atto della presenza fascista nelle organizzazioni di massa, dai Dopolavoro a i Sindacati, e di come fosse necessario starci dentro e indirizzare le giuste rivendicazioni delle masse, senza sottrarci da tali impegni né, tantomeno, pensare di organizzare minuscoli sindacati comunisti, che sarebbero stati spazzati via, senza incidere sui bisogni e le aspettative dei lavoratori. Con altrettanto lucidità analoghi concetti furono ripresi dal compagno Di Vittorio per indirizzare nella maniera più efficaci il nostro lavoro nelle fabbriche. Ricordo come feci tesoro di questi insegnamenti quando, alla fine del 1933, cominciai anch’io a recarmi in Italia, a Torino e Milano, a contatto con i compagni delle maggiori fabbriche. Di queste prime esperienze ebbi modo di parlare al Comitato Centrale del Partito che si tenne nel Febbraio del 1934 e dove ricevetti il plauso di tutti, a cominciare da Togliatti.

Furono anni molto difficili, quelli. La nostra determinazione a non sganciarci dalla lotta politica e sindacale in Italia, diversamente dalla passività di molti degli altri Partiti antifascisti, se da un lato vide cadere molti dei nostri migliori dirigenti nelle mani della polizia fascista, dall’altra fu tra le ragioni principali che, una volta caduto il fascismo e iniziata la guerra alleata e la lotta partigiana, i comunisti si trovarono ad essere la forza principale all’interno delle Brigate Garibaldi e tra i lavoratori che scelsero la lotta al fascismo, come io stesso ho constatato in questi ultimi due anni, ancora prima della mia liberazione dal carcere.
Nel periodo dalla seconda metà del 1934 al 12 Settembre del 1936, quando la polizia fascista, che mi stava pedinando da diversi mesi, come appresi al processo, mi fermò alla stazione di Calolziocorte, vicino a Milano, furono molti i viaggi che ebbi modo di fare in Italia, anche a causa della vera e propria decimazione dei nostri quadri ad opera del fascismo.

Furono almeno dodici le lettere che avevo spedito al centro del Partito, a indirizzi convenuti, , che la polizia fascista mi aveva sequestrato e che mi mostrò al momento dell’arresto e dell’interrogatorio. In esse davo resoconti puntuali sugli incontri con i compagni presenti nelle commissioni di fabbrica e di come cercavamo di indirizzare nella maniera giusta le rivendicazioni dei lavoratori. Parlavo anche dei contatti diretti con singoli lavoratori per consegnare loro la nostra stampa e reclutarli alla nostra causa. Sono convinto che, alla caduta del fascismo, se molti giovani e meno giovani si indirizzarono nella lotta partigiana, c’è un po’ di merito anche in questo lavoro clandestino che avevamo fatto quando ancora il regime fascista sembrava incrollabile. In realtà sono quelli gli anni in cui proprio i comunisti sono i più convinti propugnatori del fronte unico di tutte le forze antifasciste e anticapitaliste, il Fronte Popolare, come indicò anche l’Internazionale Comunista, che fecero la loro esperienza durante la sfortunata esperienza della guerra civile spagnola, dove anche Togliatti andò a indirizzare i nostri compagni, e poi nella Francia del 1935 quando il Fronte Popolare strappò una risicata ma importante maggioranza parlamentare e si si formò il governo di Leon Blum.

Fummo all’inizio un po’ sorpresi dall’accordo di Stalin, nel 1939, attraverso il suo ministro degli esteri Molotov, con la Germania nazista. Ma poi, quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica tutto si chiarì e con l’assedio prima e la vittoria sovietica dopo a Stalingrado nel febbraio del 1942, cominciammo a capire che la guerra poteva prendere una direzione a noi favorevole. Ricordo ancora la festa che facemmo in carcere noi politici a queste notizie!

Comunque, prima di essere arrestato dalla polizia fascista, riuscii a ritornare più volte a Parigi e a dare conto della mia attività in Italia, prima a Togliatti, che voleva sapere tutto, nei più minuti particolari, e poi negli organismi del Partito, come feci con un lungo resoconto alla riunione del Comitato Centrale del PCI nel Marzo del 1935. Fu in quell’occasione che detti conto della giustezza dei nuovi indirizzi, dell’unità con tutti i lavoratori, socialisti e perfino quelli che si proclamavano ancora fascisti ma condividevano le giuste rivendicazioni portate avanti dai nostri compagni.

Quello fu certamente il periodo di maggiore soddisfazione politica, con il lavoro con un dirigente come Togliatti e tutti gli altri, con le esperienze che facevo con i viaggi in Italia, con la considerazione in cui mi sentivo tenuto da tutti. Sfortunatamente toccò anche a me la sorte di una gran parte del gruppo dirigente: l’arresto, l’interrogatorio, il processo e tanti anni di galera per pensarla diversamente dal regime.

Alla baita tra i partigiani impegnati in un lungo turno di guardia, si fa strada una certa preoccupazione. Lo stesso comandante Ferrari non si nasconde, e lo dice ai suoi, che non è per niente tranquillo dopo i rumori della notte precedente. Perciò, in attesa che arrivi il buio, consiglia a tutti di verificare la scorta di munizione delle armi a disposizione e, se del caso, organizzarsi per sganciarsi dall’avamposto e dirigersi verso il bosco dove sarebbe stato più facile nascondersi. Tutti seguono con attenzione i suggerimenti del comandante e si apprestano ad aspettare che cali il buio e a rimuginare ciascuno i propri pensieri. Manetti, tra tutti, è sicuramente quello messo peggio. Non può ricevere cure per i suoi poveri polmoni, ma non vuole essere di peso a nessuno degli altri. Così il tempo passa, le voci si fanno sempre più rare, nel silenzio non resta che pensare.

L’interrogatorio cui mi sottoposero, che durò diversi giorni per terminare il 13 Novembre del 1936, mirava a farmi estorcere la responsabilità di altri compagni, a cominciare dalla famiglia di Primo Martinini, nella cui abitazione ero stato ospitato e in cui trovarono la valigia col materiare di propaganda nel sottofondo. Lo stesso dicasi per altre persone con cui gli agenti fascisti che mi pedinavano da giorni prima dell’arresto, mi avevano visto intrattenere rapporti. Sottoposero a stringente interrogatorio perfino la titolare di una trattoria dove mi era capitato di pranzare un paio di volte. Naturalmente, nonostante le blandizie con cui mi facevano capire che avrei potuto accorciare gli anni di arresto, negai sempre ogni legame politico con chiunque, perfino col Martinini che, in realtà, era un bravissimo e coraggiosissimo compagno. Sono tuttora fiero di questo mio comportamento. Non oso immaginare come avrei potuto vivere in carcere sapendo che anche un solo compagno era stato arrestato perché io avevo ammesso qualcosa, macchiandomi di fatto di una colpa per me insopportabile.

Ricordo come, anche in carcere, non rimanevamo mai senza fare niente. Con tutti i compagni che erano presenti, prima a Pianosa, dove fui destinato da Saluzzo per ragioni di salute, poi a Portolongone, ci organizzammo in collettivo politico e gruppi di studio. Io fui da subito destinato all’insegnamento delle basi teoriche del marxismo e della storia ai compagni meno preparati. Poco dopo, per l’esperienza che avevo accumulato negli ultimi anni, fui nominato responsabile del collettivo e, nonostante le sofferenze della malattia, non mi sottraevo certo dalle discussioni che si accendevano sulla base delle notizie che ci arrivavano dall’esterno, soprattutto quando qualche nostro compagno, dopo un viaggio in Italia, faceva la nostra fine e ci raggiungeva.

Scrivevo spesso ai miei familiari, dicendo loro che stavo meglio di quanto era in realtà, per non allarmarli e li invitavo ad avere fiducia che prima o poi le cose sarebbero cambiate. Naturalmente non potevo essere troppo esplicito perché sapevo che le lettere venivano lette dalla direzione del carcere ed evitavo che potessero provocare problemi ai miei familiari. Sapevo anche, come capivo dalle lettere dei miei, che spesso le mie venivano trattenute e non spedite perché, secondo loro, mi ero troppo sbilanciato sulle sorti del regime.

Un momento di vera amarezza, che non riuscii a nascondere neppure ai miei familiari, l’ho vissuto dopo il 25 luglio e, ancora di più, dopo l’8 settembre del 1943 quando, caduto il fascismo, era stato deciso di liberare tutti i detenuti politici. Il fatto che a me e a pochi altri, guarda caso tutti di orientamento comunista, questo fosse negato, proprio mentre fuori i comunisti erano alla testa delle brigate partigiane per cacciare l’invasore tedesco, mi provocò un’amarezza e un senso di ingiustizia che solo con l’arrivo del comandante Ferrari, qui vicino a me nella baita e i suoi uomini della Brigata Garibaldi, si è un po’ attenuato e mi ha ancora di più rafforzato nella convinzione che sarà una dura lotta politica quella che ci aspetta per dare all’Italia un vero regime democratico.


A Cesare Manetti, al comandante Ferrari e agli altri presenti nella Baita, non fu concesso di combattere oltre. La notte stessa un gruppo di tedeschi in fuga verso il nord, si avvicinò furtivamente alla baita e gettò dentro un certo numero di bombe a mano. Fu una mezza strage. I feriti, compreso il comandante e Manetti furono portati fuori a forza. Ferrari cercò di gettarsi giù per un dirupo e fu finito a colpi di mitraglia. Gli altri furono finiti con un colpo in fronte, compreso Cesare Manetti. Era da poco iniziato un nuovo giorno, il 19 Aprile del 1945. Dopo alcuni giorni, il 25 Aprile, tutta l’Italia, compreso il Nord, sarà liberata dal nazismo e dal fascismo. Quello stesso giorno, a Genova, il generale Meinhold consegnò la resa delle truppe tedesche nelle mani di Remo Scappini, compagno e amico di Cesare Manetti, empolese, con lui in Francia e alla scuola di Mosca, in questa occasione partigiano e presidente del CNL della Liguria. Di Cesare Manetti, Scappini, nel 1974, renderà al sottoscritto un ricordo commosso, appassionato e lusinghiero, come del resto tanti altri dirigenti e protagonisti di queste vicende che hanno permesso di ricostruirne i momenti più significativi della sua vita.

Infine due ricordi:

1) Sul monte Bronta esiste una lapide in cui sono ricordati i seguenti “pugnaci esponenti della resistenza operaia contro la tirannide fascista”: Cesare Manetti, Ercole Bazzoni, Silvio Barbagelata, Aldo Falchetti, Attilio Parodi, Oreste Relandini, il comandante Otto Ferrari, Anna Alisiardi. 19 Aprile 1945

2) L’11 Ottobre del 1953 a Castelfiorentino fu inaugurato un busto, posto nella piazza principale della cittadina, dedicato a Cesare Manetti. Nell’occasione Palmiro Togliatti tenne un discorso di commemorazione, di fronte ad una folla immensa, con gente venuta da tutta la Valdelsa e oltre. I passi più significativi che Togliatti volle dedicare a Manetti:
«Vi è un motivo particolare per il quale ho desiderato venire io in persona a portare l’adesione del nostro partito a questa manifestazione. Ed è il legane personale, di collaborazione, di lavoro comune, di amicizia, di fraternità che mi univa al giovane compagno Cesare Manetti, quando egli, in Francia, nell’emigrazione politica, lavorava accanto a me, nel centro dirigente del nostro partito. Egli era uno dei pochi compagni che sapessero quale era la mia abitazione a Parigi, e la frequentava giorno per giorno perché assieme a lui facevamo il lavoro necessario per dare ai nostri emigrati, ai quadri del nostro partito, i quali continuavano il lavoro e la lotta in Italia, una parte di quel materiale stampato, i giornali, le riviste ideologiche del partito che, fatti da noi a Parigi, venivano diffusi nell’emigrazioni e inviati in Italia…

Manetti era da noi considerato come oro per il nostro partito, uno di quei dirigenti usciti dalla classe operaia e che dal popolo aveva tratto tutte le virtù migliori di tenacia, di pazienza, di sacrificio nel lavoro, nella lotta per la causa, alla quale aveva dedicato e ha dato la propria esistenza».

p.s. Alla vita e alle attività di Cesare Manetti ho dedicato un volume dal titolo: “Cesare Manetti, un quadro operaio del comunismo italiano. 1901 – 1945” edito da Editori Riuniti, collana diretta da Ernesto Ragionieri, Roma, giugno 1974

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