Segreti e bugie nella famiglia Alighieri
Firenze, quella mattina di fine aprile del 1300 era resa più tiepida da un sole brillante che fece sparire in poco tempo le brume notturne. Non che la notte portasse silenzio e tranquillità. Tutt’altro! La città viveva sicuramente uno dei suoi momenti di massimo sviluppo e, al tempo stesso, di acute contraddizioni. Lo sviluppo delle attività manifatturiere, soprattutto delle lane e della seta, le tecniche sempre più innovative nella lavorazione e nella colorazione delle stoffe, unite alla tradizionale attività finanziaria, avevano fatto di Firenze uno dei maggiori centri, per non dire il maggiore centro, del mondo fino allora conosciuto.
Ed è in questa città che Jacopo Alighieri, figlio giovinetto di Dante e di Gemma Donati, riuscì quella mattina a farsi prendere in pieno dal carro del carbonaio, che passava con fatica nelle strette viuzze del canto di Porta San Piero, dove si trovava la sua abitazione, vicino al luogo nel quale, da poco più di un anno, erano iniziati i lavori di edificazione del nuovo Palazzo dei Priori, sotto la direzione di Arnolfo di Cambio.
«Hei, ragazzo!», provò ad urlare il carbonaio seduto a cassetta del suo carro quando Jacopo sbucò dalla base della casa/torre degli Alighieri, inseguendo una palla di cenci con cui era solito giocherellare nelle stradine lì intorno.
«Hei…fai attenzione!», urlò di nuovo il carbonaio. Ma non ci fu niente da fare. Il cavallo scartò di lato ed evitò il ragazzino, che tuttavia non potette fare a meno di andare a sbattere sulla fiancata del carro, cadendo a terra per il colpo piuttosto violento.
Gemma, la mamma, che vide tutto dalla finestra della casa, si precipitò a soccorrere il ragazzo, che, nel frattempo, si era rialzato e provava a camminare zoppicando.
Aiutata da alcuni abitanti della zona a riportarlo in casa e a distenderlo sul letto, fu subito chiaro che la gamba aveva subito un colpo forte e doloroso.
Era da capire come tamponare il dolore e il gonfiore che si vedevano ad occhio nudo,
per non parlare delle possibili fratture che non erano in evidenza, ma che era bene che fossero valutate da qualche bravo cerusico.
Fu questa la ragione per la quale la signora Alighieri si risolse ad avvalersi del solito Cesarino, giovane tuttofare e pronto a qualunque servigio per poche monete, perché si recasse alla chiesa di San Pier Scheraggio a cercare Dante, per metterlo al corrente dell’accaduto e affinchè si adoperasse a rintracciare chi potesse aiutare suo figlio.
Passata più di un’ora senza che Cesarino si facesse vivo, Gemma decise di ordinare alla figlia Antonia di badare per un po’ al fratello sofferente e di recarsi ella stessa in quella chiesa dove, in quel periodo, Dante era solito, come membro del Consiglio dei Cento, passare buona parte del suo tempo.
Tanto più ora che si stava preparando a svolgere un’importante ambasceria a San Gimignano per conto della città. E’ questo il periodo di maggior impegno politico di Dante, che ha già fatto parte più volte del ristretto gruppo dei Priori che, per il notevole potere che esercitavano nel governo cittadino, restavano in carica solo due mesi. In quelle occasioni si era già distinto per un ruolo di equilibrio tra la fazione dei cosiddetti popolani al potere, che voleva emarginare assolutamente le vecchie casate dei nobili ricchi e coloro, tra cui Dante, che cercavano un compromesso inglobando via via nuovi settori e ceti più tradizionali della città. Lui stesso, in questo frangente, era stato chiamato a far parte del Consiglio dei Cento in quanto, come prevedeva lo statuto in base al quale era stato istituito da pochi anni, le sue rendite, pur non clamorose, superavano i cento fiorini piccoli all’anno. Era anche questo un modo per allargare le alleanze da parte dei popolani.
«No, signora Alighieri», rispose il guardiano della chiesa cui lei si era rivolta, «questa mattina suo marito non si è fatto vivo da noi. Provi a cercarlo dalle parti del cantiere del monastero di Santa Maria Novella. Mi pare dicesse ieri che voleva conferire con l’abate su certe questioni…che non ricordo insomma».
«E…Cesarino è passato?»
«Si, è passato. Anche a lui ho detto le stesse cose…credo sia andato in direzione di Santa Maria Novella».
A passo svelto Gemma decise di raggiungere quella bella chiesa ancora in costruzione da parte dei frati Domenicani, nel cui progetto era previsto un grande monastero per i frati medesimi, in parte già costruito per alcuni di loro. Gli altri continuavano invece ad alloggiare nella piccola chiesa di Santa Maria delle Vigne, poco distante, nella quale Dante passava tante ore a colloquio con quegli uomini di Chiesa.
C’era chi pensava che Dante si adoperasse a cercare di tenere anche così la Chiesa fiorentina dalla parte del governo cittadino, mentre dal Papa Caetani cominciavano ad arrivare i primi strali sulla città.
La sorpresa per Gemma fu che Dante non era neppure lì.
In compenso, mentre se ne stava venendo via sconsolata, vide arrivare, dalla parte in cui il complesso in costruzione di Santa Maria Novella confinava con la zona ancora a verde della città, il buon Cesarino.
Il quale, appena la vide, rimase quasi interdetto e, se non fosse stato per gli ampi gesti che la donna gli fece perché si avvicinasse, sembrava piuttosto intenzionato a non andarle incontro.
«Che succede Cesarino?», gli disse Gemma, un po’ risentita, appena fu a portata di voce. «Dove sei stato da quella parte? Non dovevi rintracciare Dante? Non ti avevo dato abbastanza denari per questo compito?»
Cesarino, in evidente stato di imbarazzo, se ne stava lì muto come un pesce.
Alla fine, anche per le insistenze della donna, si decise a dire qualcosa.
«Quando ho saputo che non era lì», disse indicando la piccola Chiesa sovrastata dalla mole di quella in costruzione» mi sono deciso a cercarlo da queste parti», aggiunse facendo cenno con la mano alla distesa di verde dietro il complesso ecclesiastico.
E subito, dalla faccia che fece la signora, si accorse che avrebbe fatto meglio a tacere o a inventarsi qualche panzana.
Si, perché, allungando l’occhio, quello che si vedeva in lontananza, dietro la chiesa più piccola, nel mezzo al verde, era un edificio che nel passato era servito come ricovero per un ordine minore di fraticelli da elemosina e che ora, come sapevano tutti in città, si era trasformato in un bordello di lusso per i palati più goderecci (e potenti) della città. Una città che, dopo molte discussioni, aveva deciso di allargare l’antica e ormai ristretta cerchia delle mura medievali, dentro la quale vivevano poco meno di trecentomila anime e dove, insieme all’infaticabile attività dei nuovi artigiani, commercianti, finanzieri, si stavano sviluppando le più tradizionali attività ricreative, dal gioco, alla prostituzione, a quello che sarà chiamato il “vizio fiorentino” o pederastia, per il ristoro dei nuovi ricchi dalle loro giornate piene di affari e di pensieri. Cesarino fu lesto a ritirare la mano che, involontariamente, aveva data un’indicazione fin troppo precisa alla signora Alighieri.
Ma non potette fare a meno di sentirla esclamare «Ah!…bella roba!», che era tutto un programma per il momento in cui il Dante, meschino, si fosse trovato faccia a faccia con la moglie.
Il povero Cesarino si esibì allora in una difesa imbarazzata del Poeta, «No, Signora Gemma, le cose non stanno come potrebbe pensare! Chissà dove sarà suo marito in questo momento…non è certo il tipo, lui è un poeta…non mi faccia dire altro, la prego…» e accompagnò questo suo dire con un inchino quanto più ampio e genuflesso che potette. In realtà Dante, insieme ad altri letterati del periodo, si era dedicato al cosiddetto stil novo che elevava l’amore e la donna alla massima purezza, senza disdegnare tuttavia una pratica più terrena delle virtù amatorie.
Gemma Donati, che sapeva bene il casato che rappresentava e che in quel periodo stava emergendo tra le famiglie più potenti della città, certamente di più di quella degli Alighieri, si risolse a mangiare la foglia e rispose all’imbarazzato giovinetto: «Grazie Cesarino, dò un’occhiata qui intorno e rientro a casa dal povero Jacopo…chissà come sta soffrendo»
Nascosta tra la folla dei lavoranti della maestosa Chiesa e dei tanti curiosi che si soffermavano a dare un’occhiata, dopo poco vide arrivare, trafelato, suo marito proprio dalla parte dell’edificio di cui sopra. Senza essere vista, si trattenne ancora e, poco dopo, si decise a rientrare in casa dove, nel frattempo, Dante aveva preso visione di ciò che era accaduto al figlio e stava valutando con Jacopo il da farsi.
«Ti ha trovato Cesarino?», domandò Gemma appena furono insieme in casa.
«Si, alla fine mi ha trovato…ero dovuto passare dall’arte degli Speziali…sai, vogliono avere un loro rappresentante nella delegazione che devo condurre a San Gimignano. Si è deciso di partire domani mattina».
«O non sei anche tu un rappresentante degli Speziali?», avrebbe voluto dirgli la moglie, che invece non replicò e si mise, col marito, a valutare la situazione del figliolo, che, dopo che fu visto da un cerusico amico del Poeta, risultò meno grave di quanto poteva sembrare e fu deciso che bastavano alcuni giorni di riposo e qualche impacco sulle parti doloranti.
Pure rassicurato dall’amico, una volta che il cerusico se ne andò, Dante volle accertarsi di persona delle condizioni di Jacopo, tanto più adesso che era alla vigilia di quell’impegno politico che l’avrebbe costretto a stare fuori casa per alcuni giorni. Effettivamente il figlio aveva smesso di lamentarsi anche perché il dolore stava diminuendo. Lui stesso volle rassicurare il padre, invitandolo a non preoccuparsi più di tanto. La figlia Antonia, che non aveva lasciato da solo neppure un momento il fratello, invitò il padre a partire sereno che anche lei avrebbe aiutato la mamma nelle incombenze familiari.
Alla fine della giornata Dante raccomandò alla moglie di accogliere, i giorni seguenti, l’ambasceria dei pisani che, guidati da un giovane comandante di fregata, veniva in visita proprio quando molte personalità della città, a cominciare dal Gonfaloniere, e ora anche lui, erano impegnate in altre faccende.
Era, quello, uno dei momenti più drammatici per il governo della città. Divisi i Guelfi in Bianchi capeggiati dai Cerchi (al potere) e Neri, capeggiati dai Donati, vogliosi questi ultimi, di togliere il divieto per l’accesso al potere dei cosiddetti magnati e che erano anche riusciti ad ingraziarsi il favore di Papa Bonifacio VIII, per il quale gli Spini, di questa fazione, curavano le finanze. Dopo alcuni incidenti tra i giovanotti delle opposte fazioni, il governo decise che era tempo di convocare la Taglia di Tuscia, vale a dire l’alleanza di tutte le forze Guelfe della Toscana, per eleggere il nuovo comandante delle armate di quella fazione nella regione. Per convincere i rappresentanti delle città a partecipare alla riunione e per informarli della situazione, tutti i membri del governo cittadino e coloro che ne godevano la fiducia, furono inviati nelle città aderenti a svolgervi il ruolo di ambasciatore. A Dante toccò San Gimignano, allora importante roccaforte arricchitasi, come si poteva vedere dalle tante torri dei commercianti più fortunati, con la produzione e lo smercio dello zafferano.
«Gli ambasciatori pisani» si raccomandò Dante, «verranno qui con uno dei Priori rimasto in città per la bisogna. È importante che si sentano ospitati volentieri nelle case dei maggiorenti della città. Questa volta tocca anche a noi. Ma si tratta solo di alcuni giorni. Anch’io conto di cavarmela in poco più di una settimana e sarò di ritorno».
Quella notte Gemma si rigirò più volte nel letto. Aveva resistito all’amore del marito per quella Beatrice morta giovanissima una decina di anni prima.
Ma se quello, si diceva, era amore platonico, molto più pesante era questa storia, cui finora non aveva voluto dare ascolto, dell’invaghimento del marito per quella giovane cortigiana che, ora lo sapeva, andava di frequente a trovare.
«E pensare che scrive poesie così soavi…ed è così rigido nei suoi precetti morali. Tutti sono peccatori a Firenze, a sentir lui…fuori che lui stesso!»
Quando Dante ritornò dall’ambasceria, dopo circa dieci giorni, trovò Gemma più serena di quello che si aspettava.
«Si vede che non le sono giunte le chiacchere del popolino sulle mie visite alla Donata», disse tra sé. «Che bella che è. Appena posso vado a farle una visita. Ma dovrò stare più attento. Troppe malelingue mi farebbero volentieri a pezzetti»
In quanto a Jacopo, il fatto di averlo trovato vicino alla porta di casa a giocare con gli amichetti, lo rassicurò del tutto sulla completa guarigione dall’incidente.
«È andato tutto bene con l’ospite pisano?», domandò Dante alla moglie una volta sistemate le sue cose e rinfrescatosi dal viaggio.
«Certo, certo…non ti ho fatto sfigurare stai tranquillo», rispose Gemma mentre inforcava l’uscio per andare a fare un po’ di spesa, con un sorrisetto malizioso sul volto.
Dante non volle dare importanza all’ambiguità della frase con cui Gemma rispose alla sua domanda. Ma dall’atteggiamento freddo e perfino ironico della moglie, capì che i problemi in famiglia erano tutt’altro che superati.
Mentre ancora si trovava a svolgere il difficile compito di ambasciatore presso il Papa Bonifacio VIII, nel dicembre del 1301, giunse a Dante la notizia dell’ingresso in città di Carlo di Valois, stretto alleato del Papa, con 1200 cavalieri, il quale Valois, dopo un po' di manfrina, decise di cacciare i Bianchi dal governo, di sostituire il Podestà con un suo uomo, tal Cante de’ Gabrielli da Gubbio, di far rientrare in città i Neri, esiliati dai Priori nel periodo in cui lo stesso Dante era tornato a farne parte, lasciando loro, e alla famiglia dei Donati che li capeggiavano, mano libera nella sanguinosa vendetta verso i Bianchi avversari. Di lì a poco, per la prima volta nella storia delle fazioni fiorentine, fu istruito un vero e proprio processo per baratteria che decretò, il 27 gennaio del 1302, la condanna al pagamento di una somma immensa di 5000 fiorini piccoli entro tre giorni, pena la confisca dei beni e il confino sine die dei condannati, tutti facenti parte, prima o poi, dei Priori, tutti contumaci. Naturalmente nessuno si presentò a pagare e così, a cominciare da Dante, si posero il problema di non rientrare in città e di organizzarsi per l’esilio.
«Perché?» si chiedeva il Poeta, mentre si preparava a lasciare la città eterna e pensava a Bologna come prima tappa del suo esilio, «perché anche a me è stata comminata una pena così severa, io che in questi anni ho cercato con ogni mezzo di fare dell’avvicinamento delle fazioni in lotta la ragione del mio assumermi le pubbliche responsabilità?»
Dante rifletteva sulle ragioni più profonde delle lotte intestine nella sua città, dove i nuovi ceti delle attività artigiane e industriali, i commercianti che erano riusciti a portare le migliori lane della città fino nelle Fiandre e nell’Inghilterra, i finanzieri che supportavano in maniera spregiudicata le nuove imprese, tutti costoro si erano alleati per allontanare dal potere i ceti di più antica nobiltà e ricchezza, tuttora ancorati alle rendite agrarie e immobiliari.
Dante era consapevole di essere lui stesso, nei suoi rapporti personali, con un piede ben piantato in quel mondo. A cominciare dal carissimo amico Guido Cavalcanti, di famiglia nobile e schierato apertamente per la parte avversa al governo cittadino. La sua stessa amicizia giovanile con Forese Donati, fratello di quel Corso che capeggiava la fazione dei Neri, autore del colpo di stato con l’aiuto di Carlo di Valois, cugino di Gemma, che Dante aveva sposato. Le sue frequentazioni artistiche, il suo “dolce stil novo”, non era anche questo un modo per restare in contatto con quella parte della società fiorentina più legata alle tradizioni culturali e allo stile cavalleresco che l’aveva portato a partecipare, giovanissimo, alla fondamentale battaglia di Campaldino?
«Si, è vero, ho fatto parte dei governi dei cosiddetti popolani, fondati su quegli Ordinamenti di Giustizia che escludevano i ceti gentilizi dagli incarichi cittadini. Ma tutti sapevano, per come mi impegnavo ad attenuare questi divieti, ad avvicinare le opinioni diverse che c’erano in città, che il mio era più un ruolo di mediazione che di contrapposizione. Me lo riconoscevano pure, un tale ruolo, nei circoli culturali che frequentavo, e mi incoraggiavano a seguitare su quella strada. Ad altri, non a me, poteva essere comminata una pena così severa!»
Con la sofferenza nel cuore e tanta amarezza e delusione verso l’ingratitudine della sua città, Dante si risolse a scrivere alla moglie Gemma, con la quale i rapporti in quegli anni erano rimasti piuttosto tiepidi, per chiederle un ultimo tentativo di intercedere verso quelli della sua casata e, in assenza di novità, di fargli sapere se e quando avesse desiderato raggiungerlo in questo suo doloroso allontanamento. A questo riguardo Dante le chiedeva di provvedere a raccogliere, prima della prevedibile distruzione della sua abitazione, i tanti fogli già riempiti, ancora in prima stesura, dei primi capitoli dell’opera che aveva da poco iniziato a scrivere e, appena possibile, di recapitarglieli.
Passati diversi mesi senza nessun cenno da parte di quella moglie così vicina ai nuovi padroni cittadini, Dante cominciò a farsi l’idea che, insieme a qualche ingenuità nel dibattito dell’ultimo periodo del suo priorato in cui era arrivato a parlare contro le richieste del Papa, la spinta decisiva per buttarlo in pasto ai nuovi padroni non andava cercata fuori dalle mura domestiche.
Nel lungo periodo del suo peregrinare da una corte all’altra del suo Paese, primo ambasciatore, suo malgrado, di quella identità italiana che solo molto più tardi si affermerà, né i suoi primi scritti né la moglie ebbe mai modo di rivedere.
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