“Milioni di mondi, ognuno pensato da ognuno di noi, che viviamo ognuno nel suo mondo, con un po' di cose intorno e al centro solo se stesso”. Già in questa frase c’è una parte di verità di questo libro possente e coraggioso concepito in ben quindici anni da Fabio Genovesi, che fa pendere verso un acuto pessimismo il pur bellissimo lavoro di Genovesi.
Del resto ci vuole poco a capire che quel titolo “oro puro” non è messo lì per celebrare la purezza dei sentimenti (di cui pure l’autore intende parlarci) né tanto meno per celebrare come qualcosa di prezioso l’avventura di cui ci parla, la scoperta (per errore e per caso) dell’America da parte di Cristoforo Colombo.
Del resto Genovesi ci aveva già avvertiti: "...le nuove vie non le aprono i preti, i nobili e i soldati, ma sempre i mercanti. La fede, la conoscenza, le guerre e tutto il resto, viaggiano come le lucertole che al porto salgono sulle navi e si nascondono nella stiva tra casse e barili: aggrappate alla merce".
Bellissimo, da questo punto di vista, il riferimento che lo scrittore mette in bocca a uno dei personaggi a proposito dell'esperienza cui lo stesso Colombo, in mancanza di opere più recenti, assume come riferimento, quella di Marco Polo due secoli prima. "Il gran Khan voleva conoscere meglio la nostra religione, allora ha chiesto cento religiosi esperti e sapienti. Marco Polo è tornato a casa e li ha cercati dappertutto, pure alla corte del Papa, e alla fine in quanti sono partiti con lui? Due, due fraticelli mandati per forza... ma appena partiti hanno incontrato una regione dove c'erano delle sommosse, allora i due frati si sono rigirati e via di corsa... I mercanti invece hanno tirato diritto, hanno attraversato agguati e guerre, monti e deserti, e sono arrivati nel luogo più lontano e splendido al mondo".
Genovesi, per raccontarci la sua versione del viaggio del grande genovese, prende spunto da mezza frase che lo stesso Colombo dedica nei suoi diari a un giovanissimo mozzo capitato per caso nella spedizione e che per caso si trova in mano il timone della Santa Maria, la caravella dell' Ammiraglio, mentre stanno per ripartire per rientrare e che la porterà a sbattere sugli scogli distruggendola di fatto.
Genovesi, per raccontarci la sua versione del viaggio del grande genovese, prende spunto da mezza frase che lo stesso Colombo dedica nei suoi diari a un giovanissimo mozzo capitato per caso nella spedizione e che per caso si trova in mano il timone della Santa Maria, la caravella dell' Ammiraglio, mentre stanno per ripartire per rientrare e che la porterà a sbattere sugli scogli distruggendola di fatto.
Eppure sarà proprio questo apparente gravissimo errore (di nuovo il caso) che permetterà a Colombo di ottenere quelle quantità di oro che è l’unica sostanza che gli interessa di quell’apparente paradiso terrestre.
Da quella mezza frase sull’inesperto mozzo, dunque, lo scrittore di Forte dei Marmi ci regala un appassionato e meraviglioso romanzo in forma di racconto di Nuno, come chiamerà il protagonista, il quale, nato da padre ignoto (ma chissà che non se ne sappia di più, più avanti!) e da una bellissima mamma che per amor suo smetterà il mestiere più antico del mondo per dedicarsi, sapendo leggere e scrivere, a compilare lettere dei marinai alle loro donne. Mentre la zia carissima continuerà nel mestiere, Nuno, quando la madre morirà giovanissima, imparerà anche lui l’arte della lettura e della scrittura che lo porterà a diventare lo scrivano dello stesso Colombo di cui ammirerà, insieme alla ricerca della gloria e della ricchezza fino a distruggere l’habitat dei nativi, le allucinate visioni.
Ma l’errore del mozzo non servirà solo a procacciare altre ricchezze al capo della spedizione. Costringendo una parte dell’equipaggio a rimanere nel nuovo mondo in attesa del ritorno di Colombo, permetterà a quest’ultimo di dare vita alla prima colonia con tanto di fortificazione a presidio della conquista di quei territori. Che per il navigatore genovese sono territori asiatici e tali resteranno anche nel corso delle altre spedizioni che farà in quelle terre. A dimostrazione di quanto casuale sia stato il destino del mondo, di fronte alla novità più importante della storia dell’umanità.
Dunque un forte pessimismo tuttavia temperato da quello che l’autore chiama il vero amore. Quello, come gli aveva detto la zia “che se ti sembra non è vero amore”. E infatti quando lo incontra nella bellissima nativa "tutta la mia sicurezza, la mia gloria ubriaca e divina, si è sgonfiata nel fremito di un ragazzino che della vita non sapeva niente... quella notte... eravamo una cosa sola, noi l'acqua e il cielo, le rane i grilli l'erba l'aria che respiravamo insieme, respirandoci".
Tuttavia anche il grande amore non è sufficiente a impedire l’opera negativa degli uomini che si fanno male da soli. "E che la vita funziona così... Come la nostra barca, dove ogni colpo di remo faceva salire la prua e allora la poppa dietro doveva calare, poi saliva quella e andava giù la prua. Come il denaro, come il potere, che se qualcuno vuole averne tanto bisogna che tante altre persone non abbiano niente... Dio non ci ha dato le ali, quindi l'unico modo per salire in alto è calpestare qualcun altro"
Giunti a questo punto viene da domandarsi se questo racconto incentrato sul 1492 sia così distante da noi e dai nostri problemi, a cominciare dalle sorti future dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione per il futuro della umanità. In realtà è proprio nella risposta a questa domanda che emerge il senso più profondo e l’anima vera del nostro scrittore.
Tuttavia anche il grande amore non è sufficiente a impedire l’opera negativa degli uomini che si fanno male da soli. "E che la vita funziona così... Come la nostra barca, dove ogni colpo di remo faceva salire la prua e allora la poppa dietro doveva calare, poi saliva quella e andava giù la prua. Come il denaro, come il potere, che se qualcuno vuole averne tanto bisogna che tante altre persone non abbiano niente... Dio non ci ha dato le ali, quindi l'unico modo per salire in alto è calpestare qualcun altro"
Giunti a questo punto viene da domandarsi se questo racconto incentrato sul 1492 sia così distante da noi e dai nostri problemi, a cominciare dalle sorti future dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione per il futuro della umanità. In realtà è proprio nella risposta a questa domanda che emerge il senso più profondo e l’anima vera del nostro scrittore.
È dalla scelta che, tramite Colombo, l’umanità fece in quell’occasione che discendono non pochi dei problemi che la società di oggi non ha né il coraggio né la capacità di affrontare. Scelta che non guardò all'immensità di piante, frutti, mare trasparente che quella meravigliosa e incontaminata natura gli offriva ma, piuttosto, la ricchezza e la gloria, sintetizzate magistralmente dall'autore al momento in cui Colombo e il mozzo dialogano a proposito della apparente scomparsa della Pinta. "Perché se l'Ammiraglio temeva che la Pinta fosse andata avanti a saccheggiare l'oro e le ricchezze delle terre da lui scoperte, il vero terrore era che invece fosse tornata indietro, per raccontare ogni cosa ai Sovrani. «Perdonatemi, Signore, ma non è quello che vogliamo?» ho provato a chiedere... «No, mozzo. È l'opposto di quel che vogliamo, se glielo racconta Pinzon»."
Insomma non si può non essere grati a Genovesi anzitutto per aver scelto di andare oltre la sua amata Versilia per affrontare un voluminoso racconto sulla scoperta più importante del xv secolo e di tutti quelli che seguiranno. Di averlo fatto con un registro tra l’epico e il poetico vero e proprio e, infine, per essere riuscito a farci riflettere sull’oggi partendo da un episodio di oltre sette secoli fa.
Renato Campinoti
Nessun commento:
Posta un commento