Mi chiamo Orest, sono uno dei pochi Bielorussi che vivono a Leopoli, anche se la mia famiglia è qui da ben quattro generazioni. Sono stato tra quelli che sono scesi in piazza per cacciare il fantoccio filorusso che voleva impedire la nostra adesione all’unione europea. A vedere quello che sta succedendo in questi giorni, mi viene quasi di pentirmi. Insomma, a causa di questa mia origine, mi è capitato spesso, nel passato, di essere guardato con un po' diffidenza da quelli che non conoscevano la reale mia vicenda. La vita, da questo punto di vista, era più facile per chi aveva un’origine russa o, addirittura, ucraina. Quanto tempo abbiamo passato a dividerci tra le diverse origini di cui è fatto il nostro popolo!
Stamani quando mi sono alzato (non che avessi dormito un gran che, sia chiaro) ero convinto di dover andare al lavoro come ogni mattina. Io adoro il mio lavoro di direttore di una delle più belle biblioteche del mondo. Fino a poche settimane fa ci venivano a fare ricerche da tutta l’Ucraina. E anche da fuori, dalla stessa Polonia, che è più ricca di noi di materie prime, ma ha una scarsa dotazione di strutture culturali. Insomma, stamani ero convinto che il folle attacco di Putin al nostro Paese, non sarebbe durato che qualche giorno e, forse, avrebbe riguardato questa zona di confine a occidente solo in maniera marginale.
Così, ho bevuto il mio caffè e sono uscito. Per mangiare qualcosa mi sarei fermato da Pavlo, che ha messo su un bellissimo bar caffetteria, con paste fresche ogni mattina e con anche sandwiches salati come piacciono a me.
Passando davanti al chioschetto dei giornali di Roman ho notato qualcosa di strano. Era ancora chiuso a quest’ora del mattino e non c’era la solita fila di persone a comprare il giornale cittadino. Però Roman era lì davanti come ad aspettare qualcuno o qualcosa. Io e lui ci conosciamo dai tempi delle scuole superiori, così mi sono fermato a chiedere cosa stava succedendo.
«Sono arrivati…e sono tantissimi» mi dice, con una faccia tristissima, Roman
«Sono arrivati chi?» chiedo io, anche se comincio a sospettare di cosa si tratti
«Quelli che stanno scappando dalla guerra, dalle case distrutte, dalle stragi di civili e bambini…vieni con me, li andiamo a trovare, sono tutti stipati negli accampamenti di fortuna che i nostri amministratori hanno fatto organizzare a tempo di record»
Sto per obiettare che stavo andando da Pavlo per la colazione, ma mi rendo conto in tempo dell’assurdità che sto per dire e così vado dietro al mio amico giornalaio, fino alla tendopoli di fortuna che è stata allestita non molto distante dal centro della città.
Girando per le tende troviamo nostri connazionali che sono fuggiti da tutte le città messe sotto assedio e bombardate senza pietà dalla rabbia del dittatore russo. Ce ne sono che vengono da Kiev, sotto assedio dai primi giorni di guerra e ormai sul punto di capitolare. Ce ne sono da Charkiv, una delle prime ad essere bombardata fino, quasi, alla distruzione. Mariupol, il cui porto è stato uno dei primi obbiettivi da bombardare, insieme naturalmente, alla città intera. Sono arrivati anche da Odessa, “la perla del mar nero” come la chiamano in tutto il mondo, anch’essa ormai destinata alla distruzione.
Leggo sul volto di questa gente tanta disperazione. Ma anche tanta rabbia e determinazione.
«Sto portando mia moglie e i miei due figli in Polonia, qui vicino. Ma io torno subito indietro per andare a combattere nelle fila della resistenza ucraina. Non ce la farà, la bestia russa, a distruggere tutto ciò che abbiamo creato in questi anni di libertà»
E’ giovane, meno di trenta anni, quello che mi ha detto queste cose. Lo guardo negli occhi quasi con vergogna per aver sottovalutato, io da questa parte dell’Ucraina, la devastazione e l’orrore che è stato scatenato contro il mio Paese. Così gli stringo la mano, gli chiedo se ha bisogno di qualcosa e, alla sua risposta negativa, mi allontano verso altre persone.
Roman, che è rimasto un momento di più con quel giovane, mi raggiunge quasi di corsa.
«La famiglia di quello che hai ascoltato è di origine russa. Di quei russi, a sentire il dittatore, in nome dei quali sarebbe stata scatenata questa terribile carneficina»
Di storie come questa ne ascoltiamo più di una, da ucraini delle più disparate etnie e religioni. Ma tutti con la stessa passione e amore per la loro patria e la vita che in questo Paese hanno costruito.
Io ripenso alle discussioni che abbiamo fatto nel passato sulle diversità presenti in una nazione come la nostra che ha certamente una storia travagliata e che di soprusi, invasioni, annessioni e quant’altro ne ha subiti fin troppi nella sua storia. Ma nessuno è mai riuscito a cancellare la nostra identità nazionale. Anzi, oggi questa barbarie, sicuramente la peggiore di tutte, ci fa capire che non siamo più russi, bielorussi, ungheresi, polacchi o chissà cosa altro. Oggi siamo tutti Ucraini. Punto!
Mentre stiamo girando di tendone in tendone, veniamo raggiunti e fermati da una coppia di persone, sono un uomo e una donna, con una fascia al braccio dei colori della nostra bandiera, azzurro e giallo, che ci chiedono se ce la sentiamo di trasportare, con i mezzi nostri o del comune, le famiglie che lo desiderano nella vicina Polonia. Mi guardo intorno e vedo tutti quei cittadini accampati alla meglio, con figli piccoli o piccolissimi. Alcune sono donne incinta stremate e appoggiate ai loro giovani mariti che, come il primo che mi ha parlato, sono intenzionati a rientrare per andare a combattere.
Io e Roman ci guardiamo negli occhi come quando, a scuola, dovevamo decidere chi era il prima che si faceva interrogare. Ma ora la cosa è molto più seria. Così rispondiamo subito di si, che siamo onorati di dare una mano a questa gente, che è poi la nostra gente.
Mentre sto andando verso il confine polacco con una famiglia giovane a bordo, familiarizzo col padre che mi siede accanto. Non glielo dico, ma vorrei quasi ringraziarli per avermi dato qualcosa da fare che mi fa sentire utile per la mia nazione quando, come sta avvenendo, me la stanno distruggendo.
«Non è ancora finita», mi dico, «ma anche se dovessimo soccombere, come pensa il dittatore di tenerci sottomessi? L’Ucraina è una gabbia troppo grande per essere tenuta continuamente sotto controllo»
Termino l’ultimo viaggio che è più di mezzanotte. Ormai non ce la facciamo più, né io né Roman, a trasportare altre persone nella vicina Polonia. Ma domattina saremo di nuovo lì. Tanto la biblioteca ormai ha chiuso i battenti in attesa di tempi migliori, se ce ne saranno.
«E’ stata una giornata infernale», mi dico, «ma sicuramente non è stata la peggiore di quelle che ci aspettano».
Mentre mi infilo sotto le coperte mi viene di pensare che io non sono sposato e non ho ancora una famiglia e dei figli da difendere.
«Ma è come se quelle famiglie, quelle giovani madri, quei figli piccoli e meno piccoli, fossero tutti la mia famiglia e di tutti mi dovrò occupare nei prossimi giorni», mi dico prima di spegnere la luce sul comodino.
Renato Campinoti
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