Si dice che è dura per un figlio, per una mamma perdere la madre, la figlia. E’ vero, lo so. Ma è peggio per chi muore, credetemi! Specialmente per chi muore a vent’anni e rimane con un enorme rimpianto di non poter realizzare nessuno dei propri sogni, neppure quello, che ieri mi poteva sembrare banale, di vivere una vita normale, fatta solo di lavoro, di figli, di famiglia!
Se ci penso, non ci posso credere di essere morta così, a Oste di Montemurlo, nella filanda dove lavorava anche lei, la padrona, che mi aveva presa perché sapeva che ne avevo bisogno. Io sognavo una bella vita, ma intanto avevo un figlio da mantenere. Con i sogni non si comprano tutte quelle cose di cui ha bisogno un bambino! E poi, credetemi, era normale per noi di quelle zone, andare a lavorare. Il lavoro, per la gente di queste parti, è come il vestito che ci si mette ogni mattina, è la cosa più ovvia e normale del mondo. Però il lavoro deve servire per campare, non per morire!
Per cosa sono morta? Dice che senza le protezioni alla filanda la ditta poteva realizzare l’8 per cento in più di prodotto. Che poi la macchina dove lavoravo io serviva per realizzare le campionature, insomma non contribuiva a realizzare i prodotti in più lavorati. Ecco, così sono morta per niente!
Ora li ho sentiti i giudici che hanno emesso la loro sentenza. Dice che sono tre i colpevoli. Il più colpevole di tutti è il padrone, per aver tolto le protezioni alla macchina, il marito della signora che mi aveva assunta come apprendista. Dice che quel contratto serve per far risparmiare la ditta. Dice anche che un apprendista dovrebbe avere qualcuno che lo segue nel lavoro, che gli dice cosa fare e cosa non fare. Ma io non ce l’avevo quel qualcuno, nessuno mi ha detto come vestirmi per andare a lavorare, dove era più pericoloso sostare, le cose insomma che mi hanno portato fin qui, a morire di lavoro. E’ colpevole anche la signora, per avermi nascosto i miei diritti, così come il capo reparto che non ha rimosso le manomissioni del padrone sulla macchina.
Credevo mi avrebbe dato un po’ di soddisfazione ascoltare la sentenza dei giudici. Invece mi mette ancora più rabbia e tristezza. Io non volevo morire, volevo farla la mia vita, volevo invecchiare come la mamma, volevo veder crescere mio figlio, volevo vivere come tutti!
Ora non posso più sostare qui. Devo incamminarmi verso lassù, nel regno dei morti. Forse ora lo sentireste il rumore dei miei passi. Ricordo come erano rumorosi i miei passi quando mi capitava di sfilare, con tacchi altissimi, ancheggiando, pestando la pedana con forza!
Ora invece i miei passi non fanno nessun rumore, anzi stanno diventando sempre più leggeri. E io devo sbrigarmi ad andare lassù. Mi hanno detto di raggiungere il reparto che mi spetta, quello dei morti sul lavoro. Io non lo sapevo, forse non ci crederete neppure voi, ma è il reparto più numeroso di tutti. Ha perfino superato quello dei morti in guerra, almeno in questa parte del mondo dove di guerre è un bel po’ che non ce ne sono. E’ più numeroso di quello delle donne uccise dalla violenza, che pure si riempie sempre di più. E’ più numeroso dei morti d’infarto e di altre malattie del cuore.
Ma io a questa gara non volevo partecipare. Volevo vivere e invecchiare, io.
Scritto da Renato Campinoti
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