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09 gennaio 2022

Massimo Acciai Baggiani - Renato Campinoti: Abbandono

 

(Prima parte)

L’ospedale Banti giaceva abbandonato da decenni sulla strada che saliva verso Monte Morello, lontano dalla città, disfacendosi lentamente sotto il sole e le intemperie. Un tempo era stato definito come una delle più interessanti architetture del Novecento; adesso era solo un rudere il cui accesso era vietato agli estranei. Questo non ci fermò; scavalcammo facilmente il cancello di ferro che chiudeva la strada davanti al complesso ospedaliero e ci inoltrammo nelle sue viscere di cemento armato già invaso dalle erbacce, armati di coraggio e delle telecamere dei nostri cellulari. Eravamo io, Tom e Fiamma.

L’edificio principale si innalzava davanti a noi per diversi piani, fino al solarium dove un tempo i tubercolotici facevano bagni di sole terapeutici. I vetri rotti ci parlavano di molti anni di incuria e vandalismo, così come i graffiti all’ingresso. Fiamma iniziò le riprese della nostra spedizione di “archeologia industriale” non proprio legale. Il nostro scopo era quello di fare un video e pubblicarlo su YouTube, in forma strettamente privata, va da sé. Avevamo anche il titolo: La forza dell’abbandono.

La giornata era fredda ma soleggiata. Non c’era una nube in cielo. I raggi del sole entravano obliqui dalle ampie vetrate, rendendo superflue le torce dei nostri smartphone. Tom iniziò a illustrarci con suo tono che scimmiottava un po’ Alberto Angela e un po’ Giacobbo, citando nozioni prese da Wikipedia: «Stiamo penetrando nel sanatorio Banti, intitolato al medico Guido Banti, inaugurato nel 1939 e abbandonato dopo mezzo secolo. Siamo a pochi chilometri da Pratolino, nel comune di Vaglia… Fiamma, riprendi un po’ là.»

L’ingresso faceva pensare a un film post apocalittico. Ovunque anfratti oscuri, polvere e frammenti di vetri e sporcizia varia. L’ex sanatorio doveva essere stato rifugio di barboni, drogati e altri ospiti indesiderati nel corso degli anni. Qualcuno aveva dipinto un pentacolo rovesciato con dello spray. Non mi sarei stupito se ci avessero fatto qualche messa nera con orgia nel finale, il luogo si sarebbe prestato.

Percorremmo un corridoio con ampie vetrate sulla sinistra e varie stanze senza porte sulla destra. I nostri passi facevano scricchiolare vetri rotti nel silenzio quasi irreale del pomeriggio invernale. Era davvero molto freddo anche all’interno, anzi più che all’esterno dove almeno eravamo riscaldati un po’ dal timido sole di gennaio.

«Ci dirigiamo adesso verso il sanatorio vero e proprio, dopo aver visto la palazzina del portiere» continuava Tom, con voce comicamente professionale. «Da quella parte si va verso la centrale termica, ci daremo un’occhiata dopo.»

Annuimmo fuori campo, quindi la nostra amica abbassò il cellulare con cui stava riprendendo. Un rumore, come un’eco lontana. Ci voltammo tutti e tre verso la direzione dove ci era parso di sentire qualcosa.

«C’è qualcuno?» urlò Tom, con una certa preoccupazione nel tono di voce. Non ci fu risposta; pensammo di essercelo immaginato – o che si trattasse di un piccione che era volato da una vetrata rotta – e continuammo la nostra esplorazione.

«Ti sei presa paura?» domandai a Fiamma, mettendo una mano sulla sua spalla.

«Non proprio» rispose «ma se ci fosse qualche malintenzionato?»

«Possibile» dissi, divertendomi a spaventarla. La sua sicurezza mi irritava.

«Ragazzi, rimaniamo uniti. Non c’è nessuno e se anche ci fosse non diamo fastidio a nessuno e nessuno darà fastidio a noi» tagliò corto Tom.

 (seconda parte)

Mentre ci avvicinavamo alla parte più propriamente sanitaria della vecchia struttura, udimmo di nuovo l’eco precedente. Questa volta la paura cominciò davvero a farsi strada tra noi. Perfino Fiamma, di solito spavalda e controcorrente, mi guardò con una faccia interrogativa che sembrava dire: «Che facciamo? Torniamo sui nostri passi?». Io le feci cenno di tacere, anche perché il rumore di fondo stava trasformandosi in qualcosa di strano, come una sorta di borbottio indistinto. Ci guardammo tutti e tre negli occhi, stupiti. Possibile che ci fosse qualcuno, una persona, un essere umano, come sembrava di intuire dalle cose che stavamo ascoltando?

«Zitti! Zitti!» alzò la voce Tom, che sembrò voler riprendere il suo ruolo di guida in quella nuova, inaspettata situazione.

«Ecco a voi la voce dall’oltretomba!», si provò a metterla sullo scherzo il povero Tom, che nel frattempo era diventato bianco in faccia come uno spettro. E nessuno di noi aveva voglia di ridere. Anche perché quel rumore, da borbottio indistinto, cominciò a tramutarsi in un vero e proprio discorso, confuso ma chiaramente rivolto a noi visitatori.

Ora la voce cominciò a farsi più chiara.

«Hei tu! Sei tu il capo del gruppo?» disse ancora la voce, che sembrava indirizzata verso Tom, che nel frattempo pareva sul punto di mettersi a piangere dalla paura.

«Non ci sono capi tra noi, siamo un gruppetto di amici», intervenni io e aggiunsi: «Tu piuttosto, se hai voglia di parlare con noi, non restare rimpiattato e fatti vivo!»

«Fatti vivo! Era l’ultima frase che mi sarei aspettato di sentire! Quando io sono morto in questa maledetta struttura nessuno di voi era ancora nato!»

A questo punto la voglia di mettersi a correre in mezzo a quei vetri, calcinacci e quant’altro era fortissima in tutti e tre. Ma mi feci coraggio, e domandai ancora alla voce: «Visto che sei morto e dovevi essere qui in quell’occasione, perché non ci racconti la tua storia?»

Fu così che la curiosità e la paura cominciarono ad equivalersi dentro di noi e aspettammo che la voce si decidesse a parlare di nuovo. E infatti!

«Ero nato a Firenze al tempo che il nuovo secolo portava nuove occasioni di lavoro, grazie anche alle lotte sociali degli anni precedenti. La vita non era tuttavia facile per quelli come me. Ero un muratore che lavorava quando c’era bel tempo e stava a casa con la pioggia o quando scarseggiavano le occasioni. Con moglie e figlio, si tirava avanti come si poteva e le nostre case erano spesso umide e fredde. Per farla breve fui tra quelli, tantissimi allora, che si beccarono la tisi, che mi costrinse anche a lavorare meno, stanco e debilitato come lasciava quel maledetto bacillo. Quando cominciai a non poterne più, era il 1940, sperai che mi iniettassero uno dei primi vaccini che cominciarono a circolare, compreso quello italiano di quel Maragliano che poi fece una lunga carriera come senatore. Ma mi dissero che era inutile ormai, che i vaccini servivano per i ragazzi sani e che caso mai avrei dovuto prendere quelle medicine che si trovavano a caro prezzo, che non erano alla mia portata. Così l’unica cosa che potetti fare fu di essere internato in questa struttura, dove si respirava aria buona e si moriva.»

A questo punto si sentì come un fruscio nell’aria, un volo di qualcosa o di qualcuno che sembrò scavalcare le nostre teste e sparire.

Fu Fiamma che, impietrita per la paura, si azzardò tuttavia a chiedere:

«Ma davvero i vaccini sono serviti a qualcosa nel caso della tubercolosi? Io credo che siano state solo le medicine, la scoperta della penicillina…quelle cose lì. Anche oggi, con questo virus, il Covid insomma, ci vogliono far credere che iniettando il vaccino, senza un’adeguata sperimentazione…»

Ma a Fiamma non rispose nessuno. Evidentemente il muratore fiorentino non aveva più tempo a disposizione per raccontarci la sua storia.

A questo punto ci prendemmo tutti e tre per mano e cominciammo a fare a ritroso il cammino verso l’uscita. Convinti che avremmo avuto modo di parlare della cosa straordinaria che ci era successa, quando fossimo stati abbastanza lontani da quella fatiscente struttura.

Fatti pochi passi, il borbottio di prima ricominciò, fino a diventare di nuovo una voce come quella del muratore, ma con un accento diverso.

«Se c’è qualcuno che può parlare di vaccini, quello sono, mia cara ragazza»

Quel giorno era destino che le sorprese non finissero mai, insieme ai colpi al cuore e alla tremarella nelle gambe.

«Chi…chi sei? Perché mi dici così?», riuscì a farfugliare Fiamma.

«Io sono quello che il vaccino contro la tubercolosi sono riuscito ad ottenerlo e, con esso, ho evitato la malattia. Mio padre era un grosso dirigente delle ferrovie, allora la vera innovazione nel Paese, e quando i primi vaccini efficaci cominciarono a circolare, se ne procurò per tutta la famiglia. Così fummo tra quelli che ne uscirono alla grande, a conferma che la tisi era e rimase la malattia dei poveri. Come del resto è rimasta ancora oggi, mi risulta, per quei popoli che non dispongono di un servizio sanitario adeguato»

«Ma se tu, col vaccino, non ti sei ammalato di tubercolosi, che ci fai in questa struttura?», domandò Fiamma, che ormai cominciava a prendere confidenza con gli spettri.

Lì per lì non sentimmo nessuna risposta. Il rumore che ascoltavamo assomigliava di più ad un pianto. Dopo qualche secondo la voce riprese a parlarci.

«Io sono qui perché anche allora, in qualche testolina sbagliata, girava l’idea che il vaccino non fosse utile o, addirittura che facesse male. Che era tutto un imbroglio delle ditte che lo producevano. Questa convinzione, non so perché, si radicò nella testolina della persona che amavo come me stesso, la mia adorata figlia, che finì per ricoverarsi qui, giovanissima, rifiutando perfino quelle medicine che avrei potuto comprarle in abbondanza. Non sono mai riuscito a superare questo lutto. Sono morto di dolore pochi anni dopo i funerali di Gemma, come l’avevo chiamata. Da allora, quando ci riesco, faccio una capatina da queste parti per vedere se ci fosse rimasto il suo spirito. Finora, purtroppo, non sono mai riuscito a trovarla. Ma ho trovato te, Fiamma e ti dico col cuore ancora in frantumi, non fare la sciocchezza che ha fatto Gemma. Vaccinati, visto che a voi, oggi, non costa niente. Se non fossero servite ad altro queste mie visite che a convincere una ragazza della stessa età di mia figlia a vaccinarsi, forse smetterei di vagare come un’anima in pena e mi darei finalmente un po’ di pace»

Sentimmo di nuovo nell’aria il fruscio che aveva accompagnato l’allontanamento dello spettro del muratore.

Ci stringemmo più che mai le mani l’un l’altro e raggiungemmo l’uscita da quel rudere.

Una volta fuori, prima ancora di dirci qualcosa, io e Tom guardammo Fiamma che smanettava sul suo iPhone. Quando notammo che schiacciava un tasto alla voce Prenota vaccino, ci guardammo negli occhi come per dire che tutta quella paura, tutta quella incredibile visita al vecchio Banti, forse erano servite davvero a qualcosa.

Firenze – Sesto Fiorentino, 16 nevoso ’30 (6 gennaio 2022)

1 commento:

  1. Fantastico! Sono andata anche io con i tre protagonisti per quei corridoi, grazie alla descrizione, come loro ho sussultato al primo rumore e sono rimasta in tensione fino all'uscita.
    Grande storia, grande argomento. Complimentissimi a entrambi gli autori.

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