Quando Jessie White Mario, nella seconda metà degli anni ’90, ormai anziana e sola, nel piccolo appartamento di Via Romana, si accingeva a scrivere i “Cenni biografici sulla vita di Giuseppe Dolfi”, la memoria la portò immediatamente a quel giorno di fine luglio del 1869 quando in Firenze si celebrarono i funerali dell’ impareggiabile patriota e strenuo difensore dei diritti dei più deboli. Mai le era capitato di vedere una simile quantità di persone seguire, con la faccia e lo spirito triste, un feretro come nel caso del “fornaio di San Lorenzo”. Nonostante il caldo torrido, come sa essere a Firenze nel pieno dell’estate, erano davvero tanti, forse centomila, i fiorentini e quelli venuti da ogni parte della Toscana e oltre, che avevano sentito il bisogno di esserci. Soprattutto, erano presenti praticamente tutte le persone che, con le armi in pugno e con gli scritti sulle riviste sorte appositamente, avevano condiviso con Jessie e con suo marito Alberto Mario tutti, i rischi e le passioni che erano stati necessari per fare dell’Italia una libera nazione.
Quando il corteo sostò di fronte alla Chiesa di San Miniato, annessa al Convento di San Sebastiano, la folla non finiva di allargarsi a macchia d’olio, ammirando il bellissimo panorama della città più bella del mondo. Proprio in quegli anni Firenze, dal ’65 Capitale del Regno, con l ‘abbattimento delle mura, la costruzione dei grandi viali che la accerchiano ai piedi della sommità del Monte alle Croci e con molti lavori per i nuovi alloggi e le nuove infrastrutture ferroviarie, stava subendo la più grande trasformazione della sua secolare storia.
Jessie, accompagnata da Alberto, molto colpita dalla improvvisa e prematura scomparsa di quel grandissimo amico, non sapeva darsi pace di quel triste accadimento. Quanta gente era lì che lei, nell’ultimo decennio, aveva avuto modo di frequentare, nei salotti o sui campi di battaglia!
Quando iniziò a parlare Agostino Bertani, la folla, che si era fatta un po’ ciarliera ammirando quel nuovo panorama alle sue spalle, si ammutolì per ascoltare quel medico patriota che fin dal ’59 aveva accettato di organizzare l’infermeria per le truppe di Garibaldi, dividendo questo gravoso compito con una assistente d’eccezione: Jessie White!
Il primo, grande battimano entusiasta arrivò immediatamente, appena Bertani dette lettura del telegramma che il Generale, in momentaneo ritiro nella sua Caprera, volle inviare per dire che «noi, la Toscana, l’Italia abbiamo perduto un preziosissimo amico» .
Forse fu in quel momento che l’eroina inglese, Miss Uragano, come l’appellerà Mazzini per riassumerne il forte carattere e l’impeto battagliero, ebbe la sensazione che con quell’amico carissimo se ne andava qualcosa di più di un grande patriota. Ma ci vorranno ancora anni di battaglie, spesso perdute anche da Garibaldi, e le delusioni politiche dei prossimi tempi per dare una risposta adeguata.
Bertani andò col ricordo al 27 Aprile del ’59, alla cacciata indolore di Leopoldo II dei Lorena, grazie all’alleanza tra Ferdinando Bartolommei, aristocratico fiorentino e rappresentante in Toscana di quella Alleanza Nazionale sostenuta da Cavour e dalla monarchia sabauda e Giuseppe Dolfi, da anni alla testa della Fratellanza Artigiana, prima forma organizzata del popolo lavoratore. L’ovazione che si levò al ricordo del ruolo svolto da Dolfi in quella fondamentale tappa della liberazione di Firenze dallo straniero, convinse più che mai i coniugi Mario che la parte preponderante di quegli avvenimenti era da ascriversi ad un uomo che, pure fervente mazziniano, aveva dato alla uscita di scena dei Lorena la priorità su gli altri, nobili, sentimenti rivoluzionari. E con lui il suo popolo. Quello stesso popolo, si diceva Jessie guardandosi intorno, che tributava così tanto affetto al suo fornaio anche ora che, con l’arrivo della Capitale, stava pagando un tributo pesante all’impennata dei prezzi delle abitazioni e alla cacciata di molti lavoratori dal centro cittadino.
Con una certa meraviglia l’eroina inglese, celebrata dal Carducci come “una gran donna a cui noi italiani dobbiamo molto”, iniziò ad osservare un gruppetto di personaggi che si distinguevano anche per la foggia stravagante del loro abbigliamento e che ricordava di aver conosciuto in qualche occasione. Venne in suo soccorso il marito.« Quei tre sono del gruppo di pittori, i “macchiaioli” li chiamano, che oggi vanno per la maggiore. Quello più in là con gli anni è Giovanni Fattori, originario di Livorno ora stabilitosi a Firenze. Gli altri due più giovani sono Telemaco Signorini e Odoardo Borrani. Tutti e tre ferventi patrioti e anche volontari nell’esercito garibaldino». A Jessie vennero in mente, improvvisamente, gli episodi in cui aveva fatto conoscenza con qualcuno di loro. Solo si meravigliava di vederli così presi dalle parole di Bertani, loro che erano soliti riunirsi appartati nel Bar Michelangelo di Via Larga, ora Via Cavour, che chiuse i battenti nel ’66, sotto l’egida di quel Diego Martelli, amico fraterno di Giuseppe Dolfi. Solo più in là nel tempo, quando dismetterà l’abito di “Miss Uragano” per dedicarsi quasi esclusivamente alla riflessione e alla storia dei suoi personaggi, Jessie avrà modo di scoprire che nella Fratellanza Artigiana di Giuseppe Dolfi, accanto ai nuovi operai e ai lavoratori delle varie corporazioni, c’era posto anche per il Collegio delle Belle Arti, con ben 169 iscritti, tra i quali, appunto, quegli intellettuali che rendevano omaggio con entusiasmo alla memoria del Presidente della loro speciale organizzazione.
Ma è necessario tacere e mettere attenzione alle belle parole che Bertani sta pronunciando per l’emozione di tutta quella folla che univa, ancora una volta, il popolo minuto, i più ricchi artigiani, intellettuali e anche aristocratici.
Sul palco, accanto agli oratori designati, non poteva mancare Bettino Ricasoli, l’uomo che aveva visto in Dolfi il rappresentante di quella sinistra che, per quanto opposta alle sue idee in fatto di democrazia, era tuttavia in grado di orientare le masse popolari su un terreno di sano realismo politico.
Mi chiamo Giovanni Corsini, di un ramo cadetto di quei Corsini più famosi e più ricchi, e da quando sono nato, vivo in una casetta, piccola ma niente male, tra Piazza della Fraternità e Piazza della Fonte, nel bel mezzo del ghetto di Firenze. Poiché sono nato nel 1831, ai tempi dei fatti che videro Beppe Dolfi protagonista indiscusso della cacciata dei Lorena da Firenze, ero già grandicello e mi sapevo fare ascoltare dal popolino fiorentino che viveva da quelle parti. Forse non ci crederete, ma Beppe, uomo fantastico, come vi dirò in seguito, sapeva bene che esistevo e non si peritava di farmi sapere quello che voleva fare e, addirittura, che ne pensava delle sue intenzioni la gente che io bazzicavo. Non che fossero tutti stinchi di santo, quelli che frequentavo. A dirla a voi, e fidandomi della vostra complicità, qualche furtarello mi è capitato di farlo anche a me, soprattutto quando ero un ragazzino. A Firenze di lavoro ce ne era ben poco, ero rimasto orfano di padre affogato con la barchetta mentre si affannava per andare a prendere della gente che voleva traversare l’Arno verso le Gualchiere una domenica del 1842, per andare a pranzo dai parenti. La giornata era brutta e ventosa, il gorgo del fiume non ebbe pietà. Insomma, con la mamma che tutto quello che riusciva a fare era andare a servizio qualche ora la settimana, con una sorella più piccola di quattro anni e un fratellino nato lo stesso anno che il babbo affogava, mettere qualcosa in tavola due volte al giorno era sempre più difficile. Così, qualche volta, come vi ho detto, mi è capitato di imbrancarmi con qualcuno più esperto di me in queste faccende e portare a casa qualche soldo, quelli che valevano appena un ventesimo di lira quando nacqui io. Fortunatamente, prima con i progetti che il Lorena fece eseguire per sistemare un po’ la Toscana e Firenze, poi, soprattutto, quando siamo diventati Capitale, il lavoro ha cominciato a circolare di più e ora sono tra gli operai che costruiscono gli stradoni che attraversano tutta la città, fino al colle di San Miniato. Anche di noi, delle nostre paghe e dei nostri diritti, il grande Dolfi ha trovato il modo di interessarsi. Ma ne parleremo più in là. Ora voglio anch’io ascoltare quello che dicono questi personaggi di grande valore, che hanno avuto anche il coraggio di andare a combattere per fare l’Italia unita. Io no, non me lo sono potuto permettere. Come facevo a lasciare da sola la mamma con i figli più piccoli, senza nessuno che portasse un tozzo di pane in casa? Mi sarebbe piaciuto, soprattutto col Generale Garibaldi, camicia rossa e via! Che emozione quando ho sentito Bertani leggere il telegramma che ha mandato da Caprera! Siamo molti oggi a rendere omaggio a quest’uomo. Siamo venuti in tanti anche dal ghetto. Ora sono rientrati da noi, nel ghetto appunto, anche una parte di quelli che si erano illusi di andare a star meglio in quelle orrende case di ferro che il Comune ha fatto costruire per sopperire un po’ alla carenza di abitazioni con la discesa di tutti questi impiegati da Torino. Poveretti, quelli delle case di ferro, intendo. D’inverno non le riscaldi neppure con le fiamme, d’estate c’è il rischio di essere arrostiti. Meno male che si sono decisi a farle abbattere! Però, quanta gente, e quanti ne riconosco di quelli che, come me, fanno parte della Fratellanza Artigiana. Bella invenzione questa di Giuseppe Dolfi, di fare una mutua tra noi lavoratori che quando ci ammaliamo o, peggio, ci accade una disgrazia sul lavoro, almeno qualcosa per tirare avanti la famiglia se lo ritrova.
Eccola là, quella inglese, Jessie si chiama, che è sempre dietro a Mazzini e Garibaldi. Per carità, gente di valore quella. Basta ricordarsi che lo stesso Dolfi li ha ospitati tutti e due a casa sua. Mi ricordo ancora, anche se ero più giovinetto, quando Mazzini fu a casa di Beppe per quasi due mesi, nell’agosto e nel settembre del ‘59, alla vigilia della guerra d’indipendenza e quello, nemmeno un mese dopo, me lo disse il Dolfi con quasi le lacrime agli occhi, gli scrisse che lo considerava un traditore perché appoggiava l’idea dell’alleanza con i francesi per liberare l’Italia dagli austriaci! Ma lui non se la prese, rimase amico e in contatto con Mazzini e l’anno dopo era il principale organizzatore della ricerca di fondi e di uomini da spedire a Garibaldi nell’impresa dei Mille. Ci ha visto giusto anche allora, il grande Dolfi. Ecco, mi piacerebbe dirglielo a quella donna che è sempre in mezzo a tutte le discussioni tra gli uomini (Beppe Dolfi diceva che è giusto così, che anche le donne hanno diritto di partecipare come gli uomini. Io ho qualche perplessità, su questo) che il il mio “fornaio” è stato il migliore: quello che ci ha visto più lungo di tutti, senza attaccarsi una volta per tutte ad un idea come fosse un comandamento di Dio. Bertani sta per finire di parlare, lo sento dalla passione che ci mette e anche dalla commozione che lo sta prendendo a ricordare le lotte portate avanti col suo grande amico, defunto troppo presto, poveretto! Mi è venuto perfino di pensare che in questa sua morte improvvisa, nei lunghi mesi in cui si era quasi appartato dalla politica, non ci avesse influito pure la grande amarezza a vedere i giochi meschini, gli scandali perfino, che questa classe dirigente del nuovo Stato stava mostrando a tutti, ai fiorentini che li ospitano primi di tutti. Una volta che l’ho incontrato per parlare dell’idea di abbattere la zona del ghetto, ormai troppo ingombrante e anche indecente in certe parti, lo sentii amareggiato. E capii, da come ne parlava, che non era solo deluso dai governanti. In fondo erano i membri della “consorteria” della destra. Lo deludevano soprattutto quelli come Crispi, che pure era stato garibaldino, e che ora sembrava fosse preso dalla fregola di raggiungere il potere. Mi sbaglierò, ma senza un uomo come lui anche la sinistra si sentirà più libera di tessere i suoi giochi. Ma ora voglio ascoltare anche questo Guerrazzi, che vien da Livorno ma ha una bella storia sulle spalle.
Prima che terminasse di parlare Bertani, Jessie non potè fare a meno di andare col pensiero al loro incontro con Garibaldi, quando, il Generale convinto di essere appoggiato dal governo Menabrea, si arrischiò, di nuovo, a rompere gli indugi per la conquista di Roma (“o Roma o morte” era ormai il suo motto ricorrente!) andando incontro, il 3 Novembre del 1867, a Mentana ad una delle più gravi sconfitte della sua storia personale. L’eroina inglese, impegnata insieme a Bertani a organizzare l’infermeria piena di giovani feriti, spesso morenti, si ricordava ancora l’azzardata avventura, ordinatagli direttamente da Garabildi,che l’aveva inviata a Roma per recuperare i fratelli Cairoli, uno ferito e l’altro morto, dalle mani dei francesi. Ed era rimasta anche lei colpita, rientrata a Firenze, sede del Governo italiano, di trovare tanto cinismo e indifferenza per la sorte dei garibaldini da parte della classe dirigente. Si consumava così, lo testimonierà lo stesso Dolfi, il vero teorico dell’incontro tra moderati e rivoluzionari nell’esperienza del Risorgimento fiorentino, la rottura tra le due anime che avevano fino a qui permesso di sconfiggere i reazionari e lealisti lorenesi senza grossi spargimenti di sangue. Dalla casa che i coniugi Mario avevano affittato a Bellosguardo, nella Firenze Capitale, potevano ammirare la bellezza di quella città che Jessie, quando più avanti rimarrà vedova, adotterà come propria residenza definitiva. E avevano modo di vedere, quasi direttamente, i cambiamenti in corso d’opera sul tessuto urbanistico di Firenze. Ma sarà ancora una volta Dolfi a spiegare loro, nelle frequenti visite a Bellosguardo, che i cambiamenti non erano solo di natura urbanistica. Paradossalmente, sarà proprio lo sforzo inaudito compiuto dalla amministrazione locale per adeguarsi al ruolo di Capitale, ampliando la città oltre le vecchie mura e, al tempo stesso, per innovare le infrastrutture con le ferrovie e le Officine Ferroviarie, ma anche con le nuove imprese come la Galileo, Il Pignone, la Manifattura Tabacchi, sarà tutto questo che finirà per avviare la vera trasformazione della città, quella dei nuovi ceti sociali. Con una classe operaia sempre più cosciente del bisogno di tutela e diritti, con una classe imprenditoriale non più limitata al livello artigiano, con un nuovo scontro tra rendita e impresa che cambierà le carte in tavola anche alla vecchia politica dei baroni e delle consorterie. Proprio negli ultimi anni di vita Dolfi comincerà a capire che non bastava più la Massoneria, neppure quella della Loggia Il Progresso Sociale cui, nel 1866, aveva fatto iscrivere anche l’amico Bertani. Ora, lo ripeteva spesso nelle lunghe chiacchierate che si protraevano fino a notte fonda, occorreva guardare con più decisione alle società di Mutuo Soccorso e, soprattutto, ad una forma organizzata dei lavoratori su scala nazionale.
Ora è Guerrazzi a parlare ed è un pezzo avanti col suo discorso in onore dell’amico Dolfi. I due uomini, pur diversissimi per carattere e attitudini, avevano tuttavia una caratteristica di fondo in comune: un robusto realismo politico, che li porterà entrambi ad accantonare la forma repubblicana per non indebolire il giovane Stato così faticosamente realizzato. Di Guerrazzi Jessie ricordava soprattutto la sua forte impronta letteraria che gli permetterà, col successo del primo romanzo “L’assedio di Firenze” e con molti altri che scriverà, di inventarsi il romanzo storico del Risorgimento italiano. Ora che si guarda intorno, Jessie si accorge di quanti sono quelli vestiti ancora con abiti da lavoro, con camicie senza colletto, pantaloni infarinati di calce e rosso di mattoni, che tuttavia non sono voluti mancare ai funerali dell’uomo che non si è limitato a parlare di loro, ma li ha aiutati a organizzarsi, a fare della reciproca solidarietà un’arma potente contro il rischio di cadere in miseria, senza una mutua che li aiuti quando perdono il lavoro, senza qualcuno che insegni ai genitori o ai loro figli l’alfabeto e la scrittura, che li metta insieme in cooperativa per proporsi sul mercato del lavoro, ora che di scariolanti e muratori c’è tanto bisogno nella Capitale. A qualcuno, quando Guerrazzi ricorda le imprese sociali di Beppe Dolfi, come tutti lo chiamano a Firenze, cominciano a brillare gli occhi per la commozione. E forse anche per il timore che non ci sia, da subito, un altro Dolfi pronto a raccoglierne l’eredità e a continuare a farli sentire un po’ più sicuri quando, all’alba, entrano nel cantiere. Si, sono proprio tanti questa sera da Beppe, si dice Miss Uragano. Ci sono, qua e là, molti signori in redingote, col cappello in mano. C’è anche lui, vestito di tutto punto e con l’eterna tuba sulla testa, quel Carlo Lorenzini, detto Collodi dal paese d’origine della madre, fratello del direttore della Ginori, manifattura di ceramica di Sesto Fiorentino che diventerà un fiore all’occhiello dell’industria fiorentina. Democratico moderato, si accanisce a scrivere libri di denuncia sociale e non sa ancora che diventerà il più famoso scrittore del secolo quando, nella seconda metà degli anni ’70, si deciderà a scrivere le avventure di un burattino. E c’è anche quel signorotto tutto azzimato, e impomatato, lo nota Jessie, che sussurra al marito: «Stibbert Federico, mi pare si chiami. E’di origine inglese come me, ne abbiamo parlato spesso della nostra patria e del fatto che tutti e due abbiamo finito per sentire più nostra questa Italia. Anche lui è andato a combattere con Garibaldi, facendo la Guida tra i vari battaglioni dei Cacciatori delle Alpi. Ha ereditato una fortuna e ha investito bene anche con le ferrovie. Ora sta ingrandendo una meravigliosa villa a Montughi ». « Si, sono tanti gli avvocati, gli scrittori, i pittori e quant’altri» fa osservare Alberto alla moglie inglese, « ma una partecipazione così numerosa come non si era mai vista, c’è solo se si muovono, come in questo caso, le masse popolari. E aveva ragione lui, quando ne parlavamo negli ultimi tempi: è cambiata questa città. Le classi lavoratrici sono sempre più numerose e, a giudicare dalle presenze di stasera, sanno riconoscere chi merita di essere seguito. Anche all’ultima meta come in questa occasione ». Alberto, tante volte d’accordo con Dolfi quando Mazzini insisteva sull’opzione repubblicana, tacque per il groppo che gli si stava formando nella gola.
Si, questo Guerrazzi è bravo anche lui. Si sente che ci ha creduto e ci crede nella lotta per l’Unità d’Italia. Che, tra parentesi, non è ancora completa. Sono stati felici, quelli come me, che Firenze diventasse la Capitale d’Italia. Anche se di prezzi ne abbiamo dovuti pagare tanti, con tutte quelle case nuove che dovevano essere fatte per quelli come noi, mentre se le sono accaparrate i signorotti venuti da Torino. Con i prezzi degli alimentari andati alle stelle. L’unica cosa che è cresciuta, ve l’ho detto, è il lavoro per realizzare tutte queste trasformazioni. Si, però il Guerrazzi, più lo sento e più me ne convinco, non è come il Dolfi. Lui scrive bei libri, mi dicono, dove parla pure di quelli come noi, ma si limita a parlarne con la penna. Il nostro Beppe ha lottato fino all’ultimo per l’Unità. Ce lo diceva sempre, anche lui era orgoglioso che Firenze fosse diventata la Capitale. «Ma ricordatevelo bene, appena Garibaldi riesce a strappare Roma ai papalini, è lì che deve andare la Capitale. Solo allora si potrà dire che si è fatta l’unità d’Italia» . Poi però Dolfi le cose che diceva cercava di metterle in pratica. Vivessi cent’anni non mi dimenticherò mai il discorso che fece all’apertura del Congresso delle società operaie che si tenne a Firenze subito dopo la proclamazione dell’Unità. Ora non ricordodi preciso, ma disse tre parole che erano quelle intorno a cui ruotava tutta la sua iniziativa: l’Unità d’Italia, e si capisce checosa intendesse, l’Umanità, per dire che tutti, comprese le donne, debbono avere gli stessi diritti, il Progresso, per immaginare una società migliore per tutti. E negli ultimi anni cercò di superare un po’ di delusione per la polica dei governanti, aderendo alla Loggia Il Progresso, insieme al suo amico Diego Martelli, per dedicarsi ancora di più ai problemi del popolo, alla sua istruzione, alla sua ricerca di lavoro e di abitazioni. Ecco, questo era lui, il migliore di tutti; e bisognerà che quella Jessie se lo ricordi se vuole, come dice in giro, diventare una scrittrice della storia di questo Paese. Sarà bene che, accanto ai mostri sacri come Mazzini e Garibaldi, si ricordi di metterci uno come Dolfi che ha saputo, più di tanti bravi patrioti, vedere più lungo, come vi ho detto, e capire che senza la giustizia sociale in questo Paese saranno tanti i cittadini che perderanno l’amore per la Patria, che pure hanno contribuito a costruire. Ora anche Guerrazzi sta per finire di parlare. Ci sono con me i miei amici del ghetto con cui ci dovremo sbrigare a rientrare. Sapete, c’è chi ha cominciato a parlare di raderlo al suolo, il nostro abitato. Per carità, se ne parlava anche con Beppe, qualcosa in quella sitauazione va fatta. Gli ebrei se ne sono andati da un pezzo e hanno trovato case e ambienti molto migliori di questi. Ma prima ce lo dovranno dire dove vogliono mandare quelli come me, con le nostre famiglie. Anch’io mi sono sposato, con lui a farmi da testimone, ho già un figlio di una decina d’anni e non è che con i soldi che guadagno, mi posso permettere di comprarmi casa. Gli affitti sono andati alle stelle, così non ci resta altro che resistere, mettendoci insieme, scoraggiando quelli del Comune a portare avanti di questi progetti. Hanno da farne, di cose, con la nuova piazza d’Indipendenza, dove si riunirono i patrioti che fecero fuggire Leopoldo, la zona di Piazza D’Azeglio, di San Lorenzo e altre, senza bisogno di venire a scacciare i poveracci come noi. Va bene, andiamo amici miei, che un po’ di strada a piedi c’è da farla. Non ci possiamo certo permettere di spendere i dieci centesimi per l’Omnibus a cavalli, che sembra l’abbiamo messo apposta per quei culi di pietra dei piemontesi appena sono arrivati nella nuova Capitale. Mi spiace di non fermarmi a salutare quella Jessie. Me la ricordo ancora quando arrivò il Re Vittorio Emanuele a Firenze e tutti in corteo ad acclamarlo mentre andava dalla stazione a Palazzo Pitti. L’unica che quando passò in via Tornabuoni, davanti a Doney, fu lei accusandolo di aver rinunciato a Roma per accordarsi con quei francesi che avevano ucciso tanti garibaldini a Mentana. Non l’arrestarono proprio perché era ben voluta da tutti gli ambienti democratici. Ma dimostrò di avere coraggio da vendere! Andiamo, andiamo, amici, ci sarà un’altra occasione per parlarci con la signora Jessie White Mario.
Sono passati venti anni esatti da quel vero e proprio evento che erano stati i funerali di Giuseppe Dolfi a Firenze. Giovanni Corsini, nel frattempo, ha dovuto abbandonare la sua casetta nel ghetto di Firenze perché si sono decisi finalmente a raderlo al suolo per fare posto ad una bella piazza anche lì, a due passi dal Duomo, nel frattempo, da un paio d’anni, abbellito dalla nuova facciata in marmi, opera dell’architetto De Fabris. Fortunatamente per quelli come il Corsini, il trasferimento dei travet piemontesi nella nuova capitale romana contribuì a liberare molti appartamenti nella periferia della città, a prezzi meno esosi di quanto erano stati finora. Il muratore Corsini, nel frattempo, ha fatto dei notevoli passi avanti, sia nel campo professionale, dove, da capo mastro, ha organizzato e gestito molti cantieri per le maggiori ditte della città, sia, soprattutto, come organizzatore delle varie leghe dei lavoratori che, sull’onda dell’insegnamento e delle aspettative di Dolfi, si sono venute organizzando nei vari settori del lavoro. Da più parti si è ripreso a parlare di una organizzazione unica, capace di raccogliere tutte le leghe in un vero e proprio Sindacato di tutti, confederale, come si è cominciato a dire. C’è qualcosa, tuttavia, che a Corsini non è andato giù. Mentre il Comune, già il 3 luglio del 1870, ha fatto apporre la lapide sopra l’abitazione di Dolfi, in memoria del grande patriota, mettendo in risalto,nei bassorilievi a fianco del busto, il rapporto fiduciario con i grandi del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi, non altrettanto è stato fatto per quanto riguarda la carta stampata. Di questo Corsini ha intenzione di chiedere ragione, prima che ad altri, a quella Jessie White che sta producendo così tante biografie.
In questo periodo Jessie, di un solo anno più giovane di Corsini, anche lei alla soglia dei sessanta anni, si è ritirata a vivere, dopo la morte di Alberto Mario nell’83, in una casetta di via Romana dove deve fare salti mortali per sbarcare il lunario. I suoi resoconti sulla miseria dei bassi napoletani e di altre città del Sud hanno trovato l’apprezzamento del meridionalista De Santis e una forte reputazione nel mondo del giornalismo. Ma ben poche risorse per tirare avanti una pur modesta esistenza. Per fortuna l’amicizia di Carducci le procurò una cattedra di lingua e letteratura inglese all’istituto di Magistero, senza dover elemosinare una prebenda dallo Stato. Con gli anni, ha perso un po’ del suo ottimismo sul Paese che l’ha adottata e a cui, con la sua passione e il suo coraggio, ha dato così tanto. Non parteciperà allo sviluppo del movimento dei lavoratori, ma si dedicherà soprattutto alla scrittura delle biografie e delle memorie degli uomini e degli amici con cui ha condiviso la parte più avventurosa della sua vita. «Qui oggi stanca di vivere», come dirà poco dopo la morte del suo Alberto, «orbata di tutto fin degli amici…non cambierei la mia sorte con quella di chi che sia. Ho vissuto la vita degli italiani del Risorgimento».
Quando Giovanni Corsini bussò alla porta di Jessie White, ebbe un attimo di incertezza circa quello per cui si era deciso a compiere quel passo che per lunghi anni aveva meditato. La signora che andò ad aprirle portava solo le tracce della robusta e fiera figura di cui si ricordava negli anni giovanili. Una pettinatura corta e liscia aveva sostituito la massa ribelle di capelli ricci e lunghi che erano la bellezza e il disordine di quella ragazza. La faccia, sempre fiera, denunciava, con le rughe che in parte la solcavano, il trascorrere degli anni. Jessie si mostrò cortese e, così sembrò a Giovanni, felice di riceverlo e farlo accomodare nel modesto appartamento. Quando, fatte le dovure presentazioni, Corsini le disse, con franchezza, la ragione della visita e la sua delusione per la mancata pubblicazione di una adeguata biografia di Giuseppe Dolfi, lei, inizialmente, ebbe un moto quasi di stizza, come se si fosse aspettata altri apprezzamenti per l’opera davvero importante da lei dedicata agli eroi del Risorgimento italiano. Poi, calmatasi, spiegò a Corsini le ragioni che l’avevano portata a dare la precedenza ad altri personaggi. Gli fece notare la diffusione che avevano avute le sue opere su Giuseppe Garibaldi, quelle su Mazzini, le biografie che aveva dedicato a Bertani, le opere per divulgare il pensiero di Alberto Mario, suo marito. Su queste ultime opere gli disse di aver passato molto tempo, proprio per dare un senso alla sua vita da quando colui con il quale aveva tutto condiviso, se ne era andato. Poi lo prese per mano e lo portò in una stanzetta piccola, dove erano accatastati libri su libri, fogli su fogli. Da una mensola tirò fuori un manoscritto con una copertina su cui si leggeva chiaramente: “Cenni biografici sulla vita di Giuseppe Dolfi”. «Come vedi, è già tutto pronto per la stampa. Appena ho avuto il tempo non mi sono dimentica di Giuseppe Dolfi. Come avrei potuto? Era l’uomo dalla cui abitazione sono passati i più importanti personaggi del periodo del Risorgimento. Perfino Bakunin, raccomandato da Mazzini e Garibaldi, fu a lungo suo ospite. Tieni, prenditi il tempo che vuoi e dagli un’occhiata. Nelle prossime settimane andrà in stampa. Se hai qualcosa da suggerirmi, mi fa solo piacere». Jessie tornò nel piccolo tinello mentre Giovanni sfogliava quel manoscritto. Trovò frasi belle sul suo Dolfi: “…il popolo simpatizzava verso l’uomo che parlava dell’avvenire riservato alla Patria e dell’officio civile che le classi operaie avrebbero esercitato quando laGrande Madre fosse libera…”.Ancora:…”La sua bottega di fornaio era il rifugio del patriottismo fiorentino…i preparativi per la campagna di volontari nel 1866 furono fatti in gran parte in casa sua…”. Corsini andò avanti ancora un po’, quindi si alzò e andò a restituire il manoscritto alla scrittrice. «Non saprei che aggiungere», le disse ringraziandola della gentilezza.
Mentre si lasciava la casa di Jessie White alle spalle, Giovanni rimuginava tra sé quello che aveva letto. Poi tutto gli fu chiaro. Non era riuscito a trovare una frase che rendesse omaggio alla vera eredità che quel grande uomo aveva lasciato alla sua città: un tessuto ricco di Mutue, di Associazioni, di Leghe che erano germogliate sulle idee e le esperienze che Beppe Dolfi aveva fatto nascere nell’animo di quei lavoratori che, dal tempo di Firenze Capitale, erano sempre più cresciuti di numero. “Jessie White ha fatto cose meravigliose, anche con i suoi scritti”, si disse come per giustificarla, “ma forse, guardando indietro nella storia sua e dei grandi del Risorgimento, non ha visto quale era il lievito che il panaio di San Lorenzo metteva nel suo pane che, con la costituzione della Fratellanza Artigiana, gettava le basi per un nuovo mondo”.
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