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14 luglio 2022

Eric-Emmanuel Schmitt: Diario di un amore perduto

Dal dolore alla ricerca di sé e dei suoi sentimenti

Si inizia questo libro con un po' di scetticismo: non sarà tutto un lamento per la perdita della pur amatissima madre? 
Alla fine, quando si deve chiudere anche l'ultima pagina, dispiace e non poco allontanarci da un personaggio così, con i suoi sentimenti, i suoi lamenti, ma anche il suo, ricco, ritrovato stile di vita. 
Si perché lo spunto che da origine a questo racconto è rappresentato dal doloroso distacco da una madre che ha rappresentato sempre un punto di riferimento nella vita dell'autore. Colei che sapeva dare soltanto gioia ed equilibro, anche quando, come ci confessa Schmitt verso la fine del libro, di fronte al suo annuncio di voler terminare lo studio del pianoforte, "non smetti affatto di fare pianoforte", le dirà con autorità. "E neanche smetterai" aggiunge di suo l'autore "di amare la bellezza e l'arte, di rimanere sensibile a ciò che nutre, consola, eleva o celebra la felicità di esistere. 
"I morti sono dei vivi che hanno fatto noi, e saranno i morti che noi ne faremo". 
Possiamo dire che con queste frasi Schmitt mette termine al lutto durato due anni per la morte della madre e ci lascia un bellissimo insegnamento di vita. Sono molte le pagine iniziali e le singole frasi che l'autore dedica alla rappresentazione della immensità del vuoto che una mamma come la sua lascia nel suo animo e nella sua mente. 
Tuttavia sarebbe riduttivo far immaginare al lettore che si tratti di un libro riferito esclusivamente a tale, pur doloroso, avvenimento. Basta arrivare a prima di un terzo del lungo racconto dell'autore che una frase ci fa intuire che non vuol parlarci solo della morte della mamma. 
"Devo correre a Lione a leggere il segreto che mi ha lasciato nei suoi taccuini? In realtà è l'unica cosa che mi attira". 
Comincia da qui un'altra storia in cui, pur non abbandonando mai il riferimento al dolore per la scomparsa della mamma, Schmitt ci apre il suo cuore a ben altre angosce e sensazioni che gli attraversano l'animo. 
È paradossale, ad esempio, che un libro dedicato alla scomparsa della mamma, finisca per diventare l'occasione per risolvere finalmente il vero cruccio che ha accompagnato la sua vita sentimentale: il rapporto difficile con padre che, da lui mai fino in fondo capito, si risolverà soltanto per un fortuito incontro che proprio il lutto per la madre gli permette di avere. 
Poi ci sono, in questo piccolo capolavoro di autobiografia, tante altre cose di un personaggio di tale statura. Magnifico in questo senso il rapporto con gli animali, a cominciare da quel bellissimo esemplare di cane che lo accompagnerà per un bel pezzo della sua vita e saprà farsi rimpiangere dolorosamente alla sua morte: "Dodici chili d'amore?", si domanda alla morte dell'animale, "Si, sono pesanti. Pesantissimi. E quando se ne vanno pesano più di una tonnellata". 
Non meno stimolante e pieno di sentimento affettivo il rapporto con la figliastra Colombe, caparbia e determinata ad avere il figlio che porta in grembo, nonostante la malattia rara, la fibrosi cistica, che la tormenta. "Tua madre era una guerriera. Come me" gli dirà per incoraggiarla a essere ottimista verso la sua attesa maternità. 
Sarà con un tenero e preoccupato sentimento che ne seguirà le difficoltà e i tormenti nell'ospedale dove infine viene ricoverata a causa delle gravi difficoltà respiratorie che la malattia, in quelle condizioni, le procurano. 
Altrettanto belli sono i passaggi nei quali, ormai in vena di autobiografia, l'autore ritorna al pensiero di sua madre. Forse la frase più bella, a questo riguardo, di tutto il libro è quella che il grande autore ci regala un bel pezzo in là nel racconto, nella parte finale: "Per vent'anni mamma mi ha svegliato con dolcezza... Quando finalmente mi voltavo sussurrava: 'hai fatto dei bei sogni?' 'Si mamma, adesso te li racconto?. La prima cosa da fare su questa terra era fornire una storia plasmata dalla mia immaginazione. Ecco come si fabbrica uno scrittore..." 
Ma le parti assolutamente più interessante di tutto il libro sono, secondo me, quelle in cui Schmitt si sofferma a raccontarci la solida continuità della sua attività di attore, regista, e, soprattutto, scrittore che neppure il lutto per la madre, le vicende della malattia dell'amato cane, il ricovero ospedaliero della figliastra, la sua stessa necessità di ricovero e di operazione a una gamba riusciranno a interrompere. Sarà così che Schmitt ci porterà con sé, a scrivere il nuovo libro, un altro racconto con cui vincerà un nuovo premio, a prendere l'aereo per andare dall'altro capo del mondo a recitare il suo Monsieur Ibrahim, di nuovo a Lione a trovare la sorella e a raccontarle dell'ultima recita a Parigi. 
E sarà anche questo vero e proprio capolavoro di vita ("sono venuti a teatro, luogo sacro dell'essere umano, si aspettano il meglio e io darò loro il meglio di me. Il piacere degli altri è la mia salvezza") che alla fine il grande autore ritrova la sua pace e la sua felicità. 
"Aspettavate che mi tornasse la gioia? E' tornata. Stamattina mamma è viva, e non è l'ultima volta che mi regalerà gioia".

Renato Campinoti

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